TRAMA
Rimasta sola, alle prese con le conseguenze dell’arresto del marito, Hannah inizia a sgretolarsi…
RECENSIONI
La vita di Hannah, a un punto preciso del suo cammino, è sotto il microscopio: giorno per giorno constatiamo che direzione prende, nulla sapendo di ciò che ha preceduto questa osservazione. Nessuna spiegazione, nessun tentativo di istruire lo spettatore al quale si chiede di immergersi nella vicenda e formulare ipotesi, di confrontare la propria solitudine a quella ritratta. Di sintonizzarsi con le immagini restituite da una macchina da presa che si limita a registrare le circostanze, senza didascalie o approfondimenti posticci (così Giulio Sangiorgio su Film TV n.7/2018: «Andrea Pallaoro sa che il cinema non è sulla lucente superficie dell’immagine, ma è solo nel lavorio dello spettatore»).
Cosa c’è dietro questi gesti, questa quotidianità? Nel volto prostrato di Charlotte Rampling c’è tutto quello che serve sapere: il dolore, il tentativo di accettare una gigantesca realtà avversa (il crimine indicibile che ha condotto il marito in prigione), la tenacia minata dalla tentazione del baratro e, insieme, il rifiuto della rassegnazione, la voglia, ancora non doma, di ricostruirsi, di recitare una parte nuova (si segue un corso per imparare) che diventa uno psicodramma (le prove in casa), una recita che finisce col confondersi con la vita.
Quella che abbiamo sotto gli occhi è una lenta, paurosa, graduale esclusione di una donna dalla realtà sociale: piano piano tutto le verrà negato (la libertà di alzare una cornetta serenamente, l’ingresso in piscina, le visite al nipotino). Sempre più stretta all’angolo, Hannah combatte un destino avverso ancora fingendo una serenità da venire, ancora aggrappandosi alla prospettiva di una vita possibile, di un adattamento alla nuova condizione. Fino al crollo, a quel pianto che contiene tutta la tensione e la sofferenza repressa.
Il finale in metro - un pianosequenza che segue di spalle la protagonista - sembra un tormentato preambolo al suicidio, ma, come suggerisce Sangiorgio, è uno sviamento che diventa ancora riflessione sulla fruizione, dimostrazione di quanto manipolabile sia il pubblico, di quanto possa essere condizionante un semplice movimento di camera sull’automatismo dell’aspettativa spettatoriale: in quell’atto finale, dunque, il regista sta affermando la sua presenza, il suo potere demiurgico. Scopriremo infatti che quel pedinamento serrato della macchina a mano è solo l’ultimo scorcio di questo frammento di vita che si è deciso di raccontare: un percorso proveniente da un passato sconosciuto e che va a continuare in un futuro anch’esso incognito.
Pallaoro sceglie, peraltro, quasi tutti piani fissi (il precedente Medeas era composto esclusivamente di piani fissi) e ingabbia questo accenno di narrazione in una griglia di inquadrature ponderatissime, di abbacinante consapevolezza figurativa: Hannah sembra quasi affogare nella gelida pulizia dello sguardo dell’autore, ma in realtà è proprio attraverso la tessitura rigorosa delle immagini, nei loro soppesati silenzi, che Pallaoro filtra la tristezza della protagonista, che propone una gamma di significati ai suoi gesti (l’acquisto dei fiori: il tentativo di portare vita in una casa che di vita non ne ha quasi più, in cui persino il cane, in perenne attesa del padrone, rifiuta il cibo). In una città senza identità precisata, Hannah è il centro dello sguardo del regista: in questo modo l’evoluzione del personaggio, come nel cinema di Antonioni, si riflette sul mondo rappresentato, la donna ritrovando nella realtà lo specchio di sé. Perché quella balena spiaggiata, agonizzante sotto lo sguardo impotente degli astanti, è il riflesso della condizione della donna: un’immagine-simbolo che parla ancora una volta allo spettatore senza ricorrere alle parole.