Azione, Recensione, Thriller

HANNA

Titolo OriginaleHanna
NazioneU.S.A./ Gran Bretagna/ Germania
Anno Produzione2011
Durata111'
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Hanna, sedici anni, non è un’adolescente come le altre. Allevata lontana da tutti da suo padre Erik, un ex agente della C.I.A., è diventata una perfetta combattente…

RECENSIONI

Con Orgoglio e pregiudizio, debutto sul grande schermo dopo una breve gavetta televisiva, Joe Wright era riuscito nella non facile impresa di sottrarre il film letterario e in costume alle maglie dell’accademia parlottiera e del dramma estetizzante: quella pellicola e la successiva, Espiazione, erano dimostrazione di una consapevolezza straordinaria, quella di un regista che pur alle prese con produzioni di spicco e rivolte a un pubblico che, sul dato cinematografico, non va tanto per il sottile, imponeva al lavoro il suo linguaggio, subordinando ad esso le questioni prettamente narrative, pur senza trascurarle (anzi, il lavoro di sceneggiatura e dialoghi nei suoi film è sempre stato molto curato). Wright, insomma, finiva con l’affermare la questione dello stile cinematografico - dell’equilibrio tra sostanza e modalità per renderla - come primaria, presentando da subito le sue credenziali di autore e non di semplice mestierante al servizio di un copione o di un adattamento letterario di richiamo.
Dopo la prima produzione americana (l’imperfetto-ma-interessante Il solista) che Wright sbarchi al thriller d’azione risulta, dunque, tappa perfettamente naturale di un percorso che, pur battendo strade classiche - nel nome di una solida, valida commerciabilità - afferma il gran gesto della cinepresa come vezzo personale, la voglia di dire con originalità visiva come fuga all’ordinaria amministrazione imposta dal mainstream, il ghirigoro barocco - che si arriccia dentro - quale sintomo di amore ardente per le potenzialità di un mezzo il cui uso non ci si piega a normalizzare, ponendosi il film da girare non come comune applicazione di un dispositivo, ma ancora una volta come perfetta scelta della prassi più indicata per far proprio un discorso e renderlo riconoscibile. Hanna allora è opera cruciale per il talento del regista che, sottrattosi dal giogo della trasposizione, trova in questo film una libertà inedita, quella di cui lo privavano gli elaborati apparati di scrittura dei precedenti lavori.

L’adolescente Hanna, tenuta da sempre lontana dal consesso civile, è cresciuta nella ghiaccia landa finlandese ed addestrata alla sopravvivenza e al combattimento dal padre. Una volta pronta, farà l’ingresso in quel mondo che conosce solo attraverso le parole del genitore e che le si rivelerà, a causa di un passato ancora oscuro, come la foresta nera di Hansel e Gretel, un luogo pieno di insidie, popolato da creature pronte a farle del male (il film, in tal senso, gioca evidentemente sul forte contrasto tra la primitività del contesto dell’incipit e la ipertecnologicità di quello successivo alla cattura della ragazzina). Hanna, dunque, traducendosi, nella pratica cinematografica, in un action simbolico, rimane e vuole essere una favola archetipica: c’è l’eroina con poteri superiori (la bravissima Saoirse Ronan) e la strega antagonista (Cate Blanchett, regina malvagia, che mostra le fauci allo specchio), c’è un padre perduto da ritrovare (Eric Bana) e i cattivi (capitanati da un folle Tom Hollander) che inseguono la protagonista, c’è un cammino da fare e una meta da raggiungere, ci sono gli incontri fortuiti, le avventure sanguinose e le agnizioni come nei racconti truculenti dei Grimm (la destinazione finale di Hanna è Berlino, città natale dei fratelli, del resto esplicitamente citati) e c’è anche Andersen (l’incontro con l’amica-complice rimanda a La regina delle nevi; la ricerca di un’identità, di una vita veramente umana fanno pensare a La sirenetta). In questo senso il finale nel luna park abbandonato è spudorata messa in chiaro della base fiabesca, ma anche riferimento visivo, di tangibile simbolismo, al trauma infantile e alla componente freudiana, anch’essa molto presente nella tradizione favolistica, soprattutto tedesca.

Wright, insomma, pur attraverso una progressione lineare, fa parlare i diversi livelli dello script, ma sempre traducendo in immagini la tensione che ne scaturisce, attraverso il sapiente uso della macchina da presa, mai di mero servizio e punteggiato da splendidi carrelli laterali, improvvise impennate per inquadrature a piombo, non mancando il griffante pianosequenza (il vero colpo da maestro comincia da un pedinamento e si conclude, con virtuosismo, in un corpo a corpo con un lancio di coltello - chapeau -), uso espressivo del montaggio (si guardi l’inseguimento tra i container) e ricorrendo a uno score altamente caratterizzante e in perfetta simbiosi con le immagini (come lo era stato, del resto, quello di Marianelli per Espiazione) dei Chemical Brothers, la cui scelta non può essere imputata al caso e che nonostante la sua specificità non risulta mai invasivo, ma anzi, del tutto integrato; pur non provenendo dal videoclip - il cui campo il duo chimico ha segnato come pochi - Joe Wright si dimostra perfetto teorico del modello videomusicale come applicazione possibile per il cinema: si guardi l’esaltante scena della fuga di Hanna nel labirinto sotterraneo, letteralmente coreografata dalle luci, dai movimenti di macchina e dal montaggio, in perfetto tempismo con le note del duo inglese.

Hanna è allora un film che, senza ridursi a mera acrobazia o esercizio di stile che dir si voglia (anzi, funziona proprio quando non si fa distrarre da accidenti drammatici, si veda l’ultimissima parte - fisica, tesa, senza titubanze -), si mantiene aderente all’essenza sensoriale del racconto, sempre controllato, per niente appesantito dai rimandi ed echi interni (si pensi alla specularità delle sequenze di apertura e di chiusura, entrambe suggellate da una freccia che trafigge la carne e manca il cuore), mai vittima di un’ambizione più alta di quella di fare un action efficace che, senza inciampare nella tentazione filosofica (la questione esistenziale è sondata per quello che serve), suoni peculiare e ai margini dello schema applicato.
Il futuro vedrà Wright ridarsi una disciplina e tornare ai libri importanti con un ambizioso Anna Karenina adattato da Tom Stoppard (un altro nome che garantisce, ancora una volta, una copertura “pesante” e non routinaria del settore scrittura), ritrovando la sua/nostra Keira Knightley. Non vediamo l’ora.

È un peccato che, sotto sotto, il soggetto sia “solo” un film di vendetta in spionaggio con super-agente in salsa Nikita, perché la maestria nella messinscena di Joe Wright meriterebbe testi molto più complessi e scomodi, stile Espiazione, da cui eredita la magnifica, espressiva Saoirse Ronan (che, sagace, ha voluto fortemente il regista per dare un tocco diverso al solito film d’azione). Il suo cinema è semplicemente magistrale: dal prologo con il cervo che si specchia nell’epilogo (dove la geneticamente modificata, fredda, finisce la preda) al montaggio che si fa convulso nelle continue scene di fuga-azione; dalla musica elettronica dei Chemical Brothers ai vari stilemi da cinema contemporaneo che Wright impiega, mai fini a se stessi (o per stordire la visione, com’è di moda) ma per essere da complemento alle emozioni da evocare; dalla splendida, simbolica scelta delle location (basti citare i due luoghi dove padre e figlia affrontano gli inseguitori: una stazione deserta della metro berlinese e un sito colmo di container) a tutto lo studio ambientale che sottolinea gli stati d’animo della protagonista (Hanna trova territori depressi e degradati; quando resta sola e ha abbandonato al suo destino la famiglia di hippy, è circondata da derelitti umani e muri imbrattati). Il parco divertimenti gioca a carte scoperte, poi, un altro stilema preponderante dell’opera, la dimensione fiabesca: l’incontro con il padre è nella casetta di marzapane di Hansel e Gretel e si presenta la strega di Cate Blanchett, donna senz’anima, che affronterà Hanna sbucando da una galleria con la testa di lupo. Wright, inoltre, si differenzia dai tanti colleghi specializzati in “sparatutto” nel momento in cui punta, senza perdere mai di vista il ritmo sostenuto, sulle emozioni di questa ragazza selvaggia, che scopre per la prima volta il mondo, con le sue meraviglie e le sue stranezze.