TRAMA
XIX secolo: al principe di Danimarca Amleto, appare in sogno il fantasma del padre che chiede vendetta, perché è stato avvelenato dal fratello che ora siede sul trono e ha sposato la sua consorte.
RECENSIONI
Branagh affronta, con tutta la sua (sana) presunzione e vitalità, il testo di Shakespeare più sfruttato al cinema, con la versione di Laurence Olivier a detenere lo scettro di una classifica ideale (da cui Branagh pare riprendere l’Amleto con capelli biondo platino): per quanto quest’ultima era cupa, freudiana, angosciante e profonda, l’adattamento presente è dinamico, brioso e sanguigno. Branagh porta al cinema, per la prima volta, la versione integrale e, in più di quattro ore, finalmente si colgono meglio i paralleli fra Amleto e Laerte e fra Amleto ed Ofelia, colti da due follie differenti (il salone principale è colmo di specchi, per sottolinearne le specularità): d’altro canto, il regista/attore/sceneggiatore si rifà anche alle numerose traduzioni di un’opera che “tradisce” con un’ambientazione nel XIX secolo, per un meltin’ pot che si ritrova, fra tradizione e modernità, anche nel cast, composto di attori di teatro di fama e star hollywoodiane-europee (azzeccata la scelta di Robin Williams), fedele alla sua formula divisa fra impegno e spettacolarizzazione. Il problema s’annida fra le enfasi, le pose da baraccone, i gigantismi, quasi tutti concentrati nella deludente parte finale, più simile ad un “cappa e spada” di Barrymore e Flynn che al bardo. Anche la gratuita parte scritta per Billy Crystal, becchino conta-barzellette, era da evitare. Plauso, invece, al Branagh attore: il suo Amleto, unico vestito in nero in una corte falsamente “splendente”, restituisce il tormento, lo slancio passionale e ricco di pungente sarcasmo della figura. Fanno parte del Branagh regista i virtuosismi, i tocchi egocentrici e i trucchi di matrice wellesiana, spesso di forte impatto (il punteruolo diretto al re nel confessionale; ”l’Essere o non essere” recitato, emblematicamente, davanti ad uno specchio che nasconde il re; Branagh regista dietro e davanti la macchina da presa, con Amleto che “dirige” la compagnia teatrale con l’ottimo Charlton Heston), ma con il rischio di confezionare un’opera che strizza più l’occhio (70 mm panoramico, budget kolossale con il Blenheim Palace come location) della sostanza (si perdono certi paralleli, allegorie e significati, presenti solo indirettamente e solo grazie al testo integrale). La bravura degli interpreti e il teatro completamente ribaltato in cinema annullano le distanze fra testo ed emozione restituita dall’aderenza ai personaggi, rispettando (più di altre riduzioni shakespeariane del periodo) un autore che aveva successo fra il pubblico meno colto, convinto che il teatro dovesse essere specchio della vita, teso più alla bellezza che alla finezza: Branagh è attento alla commozione, all’ironia, alla tragedia schietta, ma lascia (come in altre sue regie) l’amaro in bocca per tanti spunti non sfruttati fino in fondo, non affinati al punto da farlo definire “autore” e non solo regista ambizioso. Il paradosso è che convince maggiormente l’Amleto mostrato nel precedente Nel Bel Mezzo di un Gelido Inverno, più originale, piccolo, povero, moderno.