Commedia, Drammatico, Recensione

HABEMUS PAPAM

TRAMA

Viene eletto Papa, ma al momento dell’annuncio si nega al pubblico per una crisi di nervi. Il Vaticano arranca, i fedeli sono in trepidazione. Si riprenderà?

RECENSIONI

I Papi

Il terrazzo su Piazza San Pietro è un palcoscenico dalle tende purpuree, migliaia di fedeli il pubblico ritualmente adorante. Il Papa è un ruolo. Il ruolo principale. Che il cardinale Melville, nei primi minuti semplice comparsa ai margini dell'inquadratura, non riesce a interpretare. Nonostante una sceneggiatura assodata. Perché Melville, si dice, è un attore mancato. La metafora della teatralità, strumento analitico e simbolico saldamente ancorato a arti e studi sociologici novecenteschi, pervade Habemus Papam con ingenua noncuranza, mettendo in circolo suggestioni, proponendo eco (la trama di riferimenti profondi, fitti, che lega il film a Il gabbiano di Cĕchov), ponendosi esplicitamente come chiave interpretativa. Aperta la porta, si offrono  i temi ovvi e conseguenti: e dunque il conflitto tra pubblico e privato, la vertigine tra palco e retroscena. Il conflitto tra l'uomo e il cardinale. L'adeguarsi della Persona alle regole dell'Istituzione. Moretti descrive con minuzia il copione millenario, un testo già scritto inscritto nel rito, una griglia fatta canone da riempire con rinnovata materia umana: non c'è irrisione sarcastica, aspirazione al vetriolo. Non c'è denigrazione, solo demistificazione. Un'umanizzazione tenera, mentre mostra le stanze/camerini dei porporati, i loro rituali nascosti, i loro vizi; acida solo nel constatare la pochezza degli individui incaricati dei processi di costruzione dell'opinione pubblica (l'idiozia del giornalista del Tg2). Le regole del gioco sono quelle del teatro, la società è quella dello spettacolo. Messe in scena, apparenze. E il corpo del Re (del Papa, in questo caso) che, ovviamente, è sempre doppio: venerato e compreso nonostante l'invisibilità, trattato con superficialità quando svestito della propria investitura. Habemus Papam si fonda su questo antico meccanismo di svelamento critico, la sua certezza è questa, mostrare lo scheletro alla base di ogni cosa. Abolire la cieca fede (non necessariamente religiosa). Secolarizzare: per abbassare alla mediocrità umana, ridurre all'incertezza. Per annullare le coordinate, creare disorientamento.

 Così ogni tentativo di riduzione della realtà a discorso, in Habemus Papam, crolla miseramente: “sono solo formule” dice lo psicanalista Moretti. Formule fallimentari, mai in grado di comprendere il reale. Quelli psicanalitici sono modelli automatici (il deficit di accudimento, la pratica interpretativa dei disegni etc), le parole degli opinionisti Tv virtuosismi vacui e improvvisati, semplici esercizi retorici gli accostamenti tra realtà e Bibbia. Ogni organizzazione della realtà fallisce: l'elezione papale come il campionato di pallavolo.“Quando si alza il sipario e, alla luce della sera, in quella camera con tre pareti questi grandiosi talenti, questi sacerdoti della sacra arte rappresentano gli uomini intenti a mangiare, bere, amare, camminare, a portare la propria giacca; quando da quadri e frasi grossolane si sforzano di trarre una morale, una morale meschina, comprensibile a tutti, utile agli usi quotidiani; quando in mille varianti mi ripropongono la stessa cosa, la stessa, la stessa; allora io scappo, scappo come Maupassant scappava dalla torre Eiffel, che gli offuscava il cervello con la sua volgarità.” dice ne Il gabbiano Constantin, autore egli stesso di una pièce altamente simbolista. Così in Habemus Papam la realtà non si organizza: non c'è realismo, solo trasfigurazione. Anche la metafora teatrale entra in crisi, e si scivola lentamente nell'onirismo, il meccanismo secolare vira verso il misticismo: la scelta finale di Melville è ponderata a teatro, in una scena che sfugge a ogni coordinata di verosimiglianza. In una scena in cui, nuovamente, Melville è posto di fronte a un personaggio chiave: l'attore folle. Se Habemus Papam è un film totalmente incentrato sulla separazione spaesante tra Attore e Ruolo, il personaggio interpretato da Dario Canterelli  è una smentita folgorante: Attore e Ruolo finiscono col coincidere nella follia, l'uomo diviene il testo. L'uomo è il copione. La rivelazione è illuminante, per quanto assurda: può esistere, e l'attore folle ne è la prova concreta (?), un individuo che incarni naturalmente quel testo già scritto, quel Meccanismo, quel Rito, quel Potere. Il Potere Pontificio. L'incertezza di Melville lascia il posto a una certezza: quell'uomo non è lui. E si presenta al pubblico per denudarsi dal Ruolo che non gli appartiene.
Moretti torna alla messa in crisi delle cristallizzazioni identitarie, tema che percorre la sua intera filmografia: come a (riba)dire che oltre le maglie ipocrite del ruolo sociale freme e trema l'individuo. Ma in Habemus Papam, soprattutto, è la questione del Potere ad essere centrale: dopo essersi caricato, sino alla somatizzazione, dell'enorme responsabilità rappresentativa di Berlusconi ne Il caimano (togliendo al Premier ogni possibile maschera, e insieme dimostrandone l'invasività antropologica virale), Moretti mette in scena una clamorosa rinuncia: in un cinema che invita sempre a essere letto (e apprezzato) in chiave autoriale e (spesso dichiaratamente) biografica, è impossibile non considerare Habemus Papam come figlio del Moretti Politico, quel Moretti che si sottrasse al ruolo di leader di una sinistra disorientata. La figura di Melville e quella dello psicanalista Brezzi, interpretato con un morettismo quasi caricaturale dal regista, sono l'una lo specchio dell'altra, si scambiano per osmosi i teatri d'azione - l'uno opera nel campo dell'altro, lo rappresenta - ma soffrono del medesimo male: “Tutti mi dicono che sono il più bravo”, dice Brezzi, aggiungendo “per questo mia moglie mi ha lasciato”. Anche la sua è un'elezione fallimentare, Habemus Papam ne è la rappresentazione, forse un invito alla consapevolezza, alla possibilità di ritirarsi dalla scena del Potere. Ma è anche un'opera che s'impegna ostinatamente a non semplificare la realtà, sfrondando ogni pretesa di realismo: il surrealismo leggiadro del film, la sua messa in crisi di ogni modello, è pratica immaginifica situata al polo opposto della pratica politica, della riduzione a norma, a pensiero rappreso e comprensibile.
Percorsa in libertà da riferimenti all'universo della realtà, come a quello della rappresentazione (l'apertura sui funerali di Wojitila, il Papa teatrante come Giovanni Paolo II, la caduta simbolica nel buio di un cardinale simile a Ratzinger, i giochi intertestuali con film precedenti, i riferimenti a celebri opere pittoriche e fotografiche, Cĕchov, la complementarità con L'udienza, l'inevitabile legame con Ritorno a casa etc etc), coerentemente con l'assunto che la abita Habemus Papam è pellicola ellittica, disorientante, colma di vuoti narrativi, di livelli di realtà indefinibili, di indizi seminati e mai completamente colti. Moretti pare radicalizzare l'onirismo che attraversava opere come Sogni d'oro e Palombella rossa, facendo di ogni scena del film territorio di esteriorizzazione, luogo di espressione libero di un sentire che vada oltre le strette della verosimiglianza, anche psicologica: Moretti non ha (mai avuto) la capacità di introdursi nel vortice delle anime dei suoi personaggi (riguardatevi a anni di distanza La stanza del figlio), ma sa creare parabole complesse, storie che parlano per accumuli di situazioni e atmosfere, in una narrazione che da diaristica diviene fumettistica, in grado di sintesi folgoranti e provocatorie. Habemus Papam conferma dunque un autore lungi dall'essere un geniale creatore di forme prettamente cinematografiche, ma capace invece di plasmare paradossi  - comici, tragici, verbali o grafici che siano -  che restituiscono la complessità delle cose del mondo in miniature dislocanti, testimonianze di un cinema vissuto come mezzo e mai come fine, piegato cocciutamente a una visionarietà autobiografica e, dunque, necessariamente politica.

L’urlo del Papa in pectore fende l’aria e turba il rigore del cerimoniale: il cardinale incaricato dell’annuncio si congela nell’atto festoso, indietreggia fissando il vuoto, si sottrae allo sguardo dei fedeli. L’osservanza di regole non antiquate, bensì fuori dal tempo, il segreto profondo e totale, il silenzio rotto soltanto dalle voci interiori e da un cantico di preghiera e di esultanza che muore a fior di labbro: il prologo del nuovo film di Moretti brilla per compattezza ed efficacia, attenzione al dettaglio rivelatore non meno che all’effetto globale, insieme ellittico ed esaustivo, spoglio e altamente spettacolare, traduzione visiva di un rito che si compie e viene negato sotto gli occhi di una platea mondiale. Basterebbero questi pochi minuti a rendere il senso dell’impossibile sfida posta al cardinal Melville, l’umiltà che si confronta con il più ineffabile degli onori, il più ingrato dei compiti, e ha il coraggio di affermare se stessa, riscoprendo, sotto i paramenti del sacro, la fragile e vitale natura umana. Purtroppo il film deve andare avanti e si perde negli improbabili gorghi di una psicanalisi derisa quasi per contratto (ma Woody Allen, beninteso quello fino agli anni Ottanta, era altra cosa), di un’autoanalisi che, pur volenterosamente convenzionale, non riesce a farsi universale o anche solo interessante (molto più interessante il vagabondare del corpo del mancato Papa, anziano e anonimo pedone in una Roma distratta e indifferente perché in spasmodica attesa), di una metafora (il teatro come specchio dell’esistenza) degna, se non di miglior causa, almeno di un trattamento più libero e meno paludato (non a caso il film “cigola” vistosamente in tutte le scene in cui sia coinvolta la compagnia alle prese con Il gabbiano). Resta il consueto (per Moretti) parallelo tra vita e sport, ma stavolta ancora più fiacco del solito, decisamente caricaturale, poco meditato nella sua ostentata simpatia e pretesa irriverenza (lo stesso dicasi, in generale, degli intermezzi da commedia all’italiana – ma dove siamo, in un film di Alberto Sordi? – dedicati alle piccole manie dei cardinali). Alla fine si ha l’impressione di avere assistito a un grande film girato sciattamente, a uno spunto magnifico rovinato da un trattamento troppo elementare e al tempo stesso non abbastanza, vittima di una scrittura che, studiandosi di non apparire sofisticata, risulta forzatamente sentenziosa, ma soprattutto di una regia che, nel tentativo di combinare profondità e leggerezza, finisce per ritrovarsi, come i cardinali alla finestra, vittima e complice di un grossolano equivoco.

Oddio, ci Siamo Persi il Papa c’era già stato e, per quanto immensamente più brutto, di sicuro aveva un “perché” più coerente: l’opera di Moretti, infatti, aggrada, diverte, promette crisi esistenziali e di fede che possano, ancora, fare “politica” sull’odierno ma, invece, si risolve in una bolla di sapone, con un finale che parla dell’uomo singolo e dimentica tutto il contesto. Dopo aver a lungo cantato la crisi della sinistra e aver attaccato il premier di destra, era lecito aspettarsi, se non il Pap’occhio o la solita satira anticlericale che non è più anticonformista, almeno una rispettosa finestra sul cuore del mondo cattolico, disquisendo (in qualunque modo) sulla crisi del potere della religione nei confronti della realtà. A Nanni i preti sono da sempre simpatici e bastava girasse un La Messa è Finita sulla decadenza di valori ed ideali. Niente di tutto questo, se non per accenni che si perdono in altro: Moretti rischia di diventare, paradossalmente, l’emblema di una sinistra che non sa più urlare, s’è ingentilita e, probabilmente, non sa nemmeno più cosa dire (se non dare addosso a Berlusconi). La Chiesa ne esce indenne, i cardinali del Conclave sono raffigurati come bambini ingenui, i sette nani della Biancaneve di turno. Michel Piccoli è senz’altro immenso nel raffigurare, in una pellicola popolata di macchiette, un papa con il dono dell’umiltà, una figura di spessore e in crisi esistenziale, e quando entra in scena il Nanni Moretti attore, con il solito personaggio scettico, ossessivo (sulla ex-moglie) e competitivo nello sport, è uno spasso (interpreta uno psicanalista, altra ossessione morettiana). Qualche (altra) gag è divertente, in parallelo c’è il “giallo”, da Caos Calmo, di un papa/uomo di cui è arduo stabilire il simbolismo, fra santità o allegoria emblematica della crisi di fede in tutto il mondo. Il problema è che l’autore, infine, non raccoglie il (poco) seminato, preferisce il “cazzeggio” di partite a pallavolo al ralenti, l’imbarazzante, più che buffo, sprazzo musical con “Todo cambia” di Mercedes Susa, il tema della guardia svizzera che se la spassa nelle camere pontificie, il parallelo “colto” del papa-attore che sogna Cechov e Il Gabbiano.