Horror

H2ODIO

TRAMA

Olivia insieme ad altre quattro giovani amiche torna nella casa materna, luogo totalmente immerso nella natura in cui ha trascorso l’infanzia, con l’intenzione di fare una vacanza purificatrice a base di digiuni spirituali e alimentari._x000D_

RECENSIONI

Due considerazioni preliminari di ordine paratestuale. La sinergia produttiva che coinvolge l’impegno della 52 S.r.l. di Alex Infascelli, della Minerva Pictures e del binomio Loris Curci e Andrea Marotti elabora intriganti strategie distributive alla luce delle nuove modalità di fruizione dello spettacolo cinematografico consegnando il proprio prodotto al potere di diffusione di grossi gruppi editoriali come L’Espresso e la Repubblica, garantendone la capillare circolazione delle edicole. La sontuosa confezione del formato in dvd dell’opera affidata alla grafica dell’illustratrice armena Ana Bagayan presentando motivi estetici che vanno dal fauvismo di Rousseau il Doganiere al Magritte più ornitofilo fino a giungere all’arte illustrativa di Mark Ryden risulta, forse, l’elemento più intrigante di tutta l’operazione.
Pur affrancandosi dalle ingombranti, seppur feconde, presenze testuali di Lucarelli e Ammaniti quest’opera di un Infascelli più autonomo e personale presenta la solita impossibilità (o incapacità) di esimersi dalla volontà di formalismo, di allucinata calligrafia, di ricercatezza espressiva che finisce per costituire un involucro formale, mediante la complicità di una fotografia volutamente traslucida e delle vuote nenie musicali di Steve Von Till, infelicemente sconnesso dal materiale diegetico in qualche modo trattato. L’iconolatria sfrangiata – quasi un’ossessione infascelliana – conduce e costringe la messa in scena a costruzioni d’immagine orfane d’emozione, sempre troppo eccedenti, nei quadri, nei piani, nei colori e nei suoni; debordanze che sovraccaricano il senso della messa in rappresentazione la quale risente sensibilmente di un eccesso di assenza di connotatum. H2 Odio si configura come confuso insieme di fluidi elementari e semantici (acqua e sangue) che tendono alla deriva incontrollata senza lasciare illusione alcuna di trattenere un senso (inteso anche topologicamente come direzione). Il fluire filmico scorrendo a volte con troppa facilità e supponenza carsiche (l’artefatto senso di mistero, l’ambientazione incubale di una zona psichicamente limbale di un ego o di un nos complicatamente collettivo, le sottolineature marcatamente sottotestuali) abbandona detriti concettuali che ammiccano alle risonanze postume del problema filosofico rappresentato dal dualismo psicosomatico e si risolvono nella più scontata delle incursioni nelle zone del disturbo della personalità. Il sopraggiungere di questo inquietante gineceo salutista (che fa pensare d’emblée a pellicole come Safe) traghettato in un non-luogo infernale, in una sorta di anti-eden innaturalisticamente naturista da un barcaiolo-caronte, che poi sprofonda il discorso declinato su temi da becera mistica new age nel racconto di una sorellanza ben più segreta, oscura e angosciosa, prelude a non altro che una monotona esplorazione nei territori di un orrore psicologico che ha lo sguardo schizoide del doppelgänger inquiétant che alberga nella profondità della psiche, legato a doppio filo alle (solite) due figure archetipiche di madre e sorella, custodite da un percorso protettivamente e patologicamente regressivo nutrito di odio e sensi di colpa (meccanismo di rimozione nei confronti del fantasma inconscio del “gemello morto”). Illustrazione senza pathos, delirio formale senza follia.

È un bene che il film di Infascelli sia uscito in dvd e non sia stato distribuito in sala, che non sia stato gettato in pasto a un pubblico distratto e insofferente verso pellicole che non si esauriscono nell’arco della visione unica, ma che richiedono ben altra attenzione e impegno. È un bene poiché tra il testo digitale e lo spettatore il rapporto è meno vincolante e spettacolarmente coercitivo (un filmologo direbbe che il fatto filmico ingloba una parte del fatto cinematografico), l’uscita in dvd selezionando un pubblico meno indistinto e impreparato di quello tradizionale, un pubblico disposto a passare dalla fruizione puntuale alla frequentazione iterativa, dalla visione alla revisione. Quello che si perde in termini di dispositivo, di istituzione, insomma, si recupera in termini di riflessione e leggibilità. Magari sto esagerando, lo ammetto, ma per chi, come il sottoscritto, ritiene che rivedere sia più significativo e decisivo che vedere è lecito accogliere questo esperimento distributivo con sostanziale ottimismo e senza allarmismi vagamente isterici. Tanto più che H2Odio presenta un’esuberanza stilistica così marcata che la distribuzione in sala lo avrebbe quasi certamente condannato all’accusa di pasticcio pretenzioso e fortemente derivativo. Il che è vero solo a prima vista (o meglio a prima visione). Ora, se è fuor di questione che i personaggi siano scritti in modo piuttosto grossolano, le dinamiche di gruppo sbozzate con eccessivo schematismo e la natura “genetica” dell’assunto incapace di oltrepassare la logica dello shock epidermico, è altrettanto innegabile che, per rappresentare questa piccola apocalisse al femminile, Infascelli impieghi un linguaggio filmico di inusitata complessità, mostrando una disponibilità alla sperimentazione e alla ricerca visiva che nel panorama italiano non sono proprio all’ordine del giorno (si pensi alla pseudovisionarietà di Daniele Vicari o ai compiaciuti stilismi del sopravvalutatissimo Paolo Sorrentino). D’accordo, l’intreccio - col suo inconcludente ciondolare intorno ai temi della naturalità rigenerante, del disagio psichico e del microcosmo esemplare - grida vendetta, ma fortunatamente Infascelli è un cineasta e fa quello che qualsiasi cineasta dovrebbe fare: esercita lo sguardo. Non subordina piattamente e pedissequamente il linguaggio visivo alla funzionalità tramica, ma si allontana spesso e volentieri dal tracciato narrativo, abbandonandosi all’esercizio dello sguardo svincolato dall’obbligo di raccontare. Indubbiamente alcune soluzioni visive non sono di prima mano (i grandangoli fisheye e la camera solidale al corpo del personaggio derivano da Aronofsky - e, più lontano, dal Frankenheimer di Seconds -, mentre i jump cut destabilizzanti e le improvvise “fratture ottiche” provengono direttamente dal Kim Jee-woon di Two Sisters, non a caso due film sulla figura del doppio), eppure Infascelli riesce a inserirle in un tessuto filmico dotato di una sua coesione stilistica e di una sua autonomia estetica, facendo di H2Odio un lavoro sì imperfetto e eccedente, ma anche forte di una concentrazione linguistica e di una densità d’immagine che, in nome di un malinteso senso della purezza visiva, sarebbe sbrigativo e ingiusto sottostimare.