TRAMA
Tanaka sta attraversando un momento difficile, è impegnato ad aiutare la sorella più giovane, Mitsuko, arrestata e rinchiusa in carcere. Nella sua veste di reporter investigativo si dedica con ogni energia a uno scioccante delitto irrisolto: una famiglia “perfetta” – importante uomo d’affari, bella moglie, figlia adorabile – è stata brutalmente assassinata un anno prima e il caso è ancora aperto. Tanaka intervista amici e conoscenti, e man mano che la storia della vera natura delle vittime affiora, il reporter scopre che la famiglia non era così perfetta come si pensava (dal sito della Biennale).
RECENSIONI
Kei Ishikawa debutta al lungometraggio adattando il romanzo di Tokuro Nukui, Gukoroku ovvero Catalogo, costruito appunto su un intreccio particolare che vuole squadernare l’universalità della società nipponica. Cinematograficamente, il regista lo rende col piano sequenza iniziale all’interno del bus che si ripete nella chiusura ad anello: Tanaka dà inizio alla storia, e poi la conclude, mentre i passeggeri non lo guardano indifferenti e la macchina da presa dirazza in ralenti su altri volti, persone qualunque come lui. Racchiuso in questa dichiarazione d’intenti c’è un giallo sul Giappone contemporaneo dove, se in apparenza sono tutti uguali, dietro il velo si staglia un meccanismo di dominio dei ricchi sui poveri, silenzi e clientele, favori reciproci e scalate sociali (e così, per esempio, un giovane può avere due fidanzate per entrare in una grande azienda). Più che la verità sulla strage, seppure stordente, è questo che Tanaka gradualmente scopre nel corso della detection: un congegno spietato, l’ipocrisia della perfezione che rende la famiglia uccisa metonimia di un comportamento di Stato. Il colpevole, oltre al movente concreto, è alla bugia collettiva che si ribella, contro di essa che agisce. Ishikawa manipola il libro moltiplicando la prospettiva (il racconto è un lungo interrogatorio di Mitsuko che parla), prevedendo per ogni personaggio un registro stilistico all’uopo, e mantenendo sempre Tanaka nel ruolo di osservatore (teoricamente) non partecipe attraverso la sua lente giornalistica. Il film, dopo un inizio propedeutico che costruisce il suo discorso con qualche prolissità, cresce alla distanza: avanza con mano solida e soluzioni stilistiche notevoli, tenendosi mirabilmente nel doppio binario della metafora sociale e del thriller puro, avvolgendo sia nella riflessione subliminale sia nella “semplice” caccia all’assassino. Fino al potente finale, che scioglie il whodunit ma rafforza l’affresco inciso sulla pelle del Paese. Produce Office Kitano, che nel progetto dell’esordiente ha visto potenzialità.