Drammatico, Sala

GRAND TOUR

Titolo OriginaleGrand Tour
NazionePortogallo, Italia, Francia
Anno Produzione2024
Durata129'
Scenografia

TRAMA

Nel 1917 a Rangoon, Edward, un funzionario della Birmania coloniale britannica, scappa dalla sua promessa sposa Molly il giorno del suo matrimonio. Quest’ultima si mette sulle sue tracce in un improvvisato “Grand Tour” dell’Oriente.

RECENSIONI

Grand Tour (2024) - IMDbGrand Tour occupa lo slot (di questi tempi solo uno, ahinoi, e nemmeno occupato ogni singolo anno) che il festival di Cannes riserva annualmente ad UFO cinematografici che non assomigliano a niente e che tentano di ridisegnare i confini di ciò che sia o possa essere, oggi, un film “d’autore” europeo, in un’epoca in cui non ci si può non sporcare le mani con la de-mondializzazione che infiamma tutt’intorno al nostro continente.
Un paio d’anni fa, Pacifiction di Albert Serra era un altro esemplare del genere. Questo progetto, la cui progettazione e lavorazione si è estesa su quasi cinque anni, alterna una vicenda finzionale in bianco e nero del 1918 (un diplomatico britannico sperduto tra Birmania, Tailandia, Cina, Giappone e altri frondosi avamposti dell’estremo oriente, da sette anni separato dalla fidanzata con cui vuole ricongiungersi e che segue le di lui tracce) a materiali di repertorio contemporanei di quei medesimi pezzi di Asia, a volte a colori altre no, cuciti insieme in maniera straordinariamente fluida (il film scorre che è una meraviglia; una oppiacea, onirica meraviglia) soprattutto da un tappeto sonoro i cui rumori e le cui musiche (dal Trovatore ai valzer straussiani ad altro) suggeriscono una belle epoque che, qui in Occidente (e basta aprire un giornale per ricordarselo) non finisce mai di finire, perché a non finire mai di finire è la forma dell’Impero, sempre agonizzante e sempre anacronisticamente in auge. Per questo, anche i personaggi inglesi parlano portoghese: un impero vale l’altro.
Entropia è dunque la parola chiave. Ce lo hanno mostrato, definitivamente, gli amori frustrati a sfondo geopolitico di non pochi film di De Oliveira (che Miguel Gomes conosce bene): l’unione impossibile da chiudere tra uomo e donna coincide con la forma imperiale che, prosperando del non potersi mai chiudere davvero, rende perpetua e strutturale la catastrofe sociale. Ciò che in Grand Tour fonde presente e passato, è appunto che a tutt’oggi ci dibattiamo nel movimento dispersivo, catastrofico ed entropico, inaugurato dalla fine degli imperi europei.
Gomes fa l’inchino a tanto cinema orientale che, di recente, si è posto all’avanguardia del postcoloniale (c’è il solito direttore della fotografia di Apichatpong Weerasethekul, ormai ampiamente cooptato da tanti occidentali tra cui Guadagnino – ma, soprattutto, le foreste brumosamente ricreate in studio non possono non far pensare, più ancora che a von Sternberg e a tanti padri nobili del passato, a Independencia di Raya Martin), ma il decisivo nume tutelare di questo progetto rimane Glauber Rocha, che nei suoi ultimi film (A Idade da terra su tutti) seppe raccogliere il testimone di Sergei Eisenstein per praticare un montaggio che, anziché costruire un filo lineare, aggancia l’entropia direttamente attraverso i suoi detriti per moltiplicarne la dispersione. Anche l’ombra illumina, non solo la luce, dice (nel film) il saggio giapponese.

I materiali di repertorio del ventunesimo secolo di Saigon, Shanghai, Bangkok e quant’altro ritraggono poco più che l’ordinaria quotidianità delle loro strade, in modo tale da essere tutti indifferentemente intercambiabili. Oggi come cent’anni fa, i panni che si stendono, il mahjongg che si gioca, l’acrobaticità dei lavori manuali, non sono tanto segni di continuità di sostanza tra passato e presente, quanto segni di come ciò che il tempo non riesce a scalfire sia ciò che è triviale, marginale, banale come gli archetipi uomo-donna che ritroviamo più meno in tutte le marionette, i giochi di ombre figurativi e le prassi teatrali di tutti i paesi attraversati. Ed è a questa trivialità che si attacca, molto spesso, il montaggio per collegare i suoi frammenti. Gomes seleziona e monta insieme materiali il cui carattere di epifania visuale non viene esclusa, ma fomentata dalla loro insignificanza, e che nello spazio del loro emergere e svanire bruciano qualsiasi sospetto di pittoresco. Nella catastrofe perpetua, l’indistruttibile è il banale.
Dialettico e paradossale come (via Eisenstein) lo era Rocha, Grand Tour vive dello scontro elettrico tra le opposte polarità del sublime e dell’ironico: i personaggi ridacchiano e si schermiscono tanto quanto indulgono nel sublime e nel misticismo (il diplomatico inglese è tentato, davanti alla catastrofe perpetua, dal buddismo e dal suo approccio distaccato). Tanto Gomes è pronto a denunciare il carattere costruitissimo dei suoi scenari, quanto è restio a rinunciare all’incanto visuale nel restituire (frastagliando le luci, sovraccaricando i set di oggetti naturali o meno, arabescando di movimenti di macchina e stacchi ad angolazioni impreviste) uno spazio filmico labirintico che lascia i propri segni sul corpo stesso e sulla recitazione degli attori.
Nel silenzio o quasi della sempre più futile grancassa mediatica, un numero tutt’altro che irrisorio di case di produzione di non necessariamente grandissima dimensione si gettano nel vortice di una mutazione del panorama geopolitico, e quindi global-cinematografico, tanto nuova e radicale quanto iscritta nelle coordinate di un passato già visto. E lo fanno stabilendo, sempre di più, partnership non tanto tra il centro e i margini (Francia e/o Germania insieme a paesi alla periferia dell’Europa, come il nostro), ma tra margini e margini. Islanda e Polonia (Godland), Italia e Belgio (Freaks Out), Italia e Svezia (The Store), Italia e Repubblica Ceca (Il boemo): tutti film recenti (e la lista sarebbe molto più lunga) la cui parabola non finisce ai festival, ma molto spesso viene prolungata in sala, sulle piattaforme e altrove. Il che prova la vitalità del trend e il suo riflettere, in modo nemmeno troppo indiretto, una più ampia mutazione epocale degli equilibri internazionali. È il caso anche di Grand Tour, produzione solo marginalmente francese, e per il resto quasi alla pari ripartita tra Portogallo e Italia (con il primo lievemente più in primo piano). Accanto ai molti che, da noi, si lasciano abbagliare da pseudo-contrapposizioni identitarie sempre più stucchevoli e inservibili (tipo, giusto per stare alla cronaca delle ultime settimane, “cinema d’autore” verso “industria”, naturalmente senza un’idea anche solo lontanamente adeguata tanto del primo quanto della seconda), fortunatamente c’è, anche in Italia, chi volta le spalle a questo ridicolo provincialismo e si confronta con il ridisegnarsi delle mappe globali in corso.