TRAMA
Kao, Bian e Pretzel, tre piccoli malavitosi di Taipei, si spostano da una parte all’altra di Taiwan per concludere traffici illeciti e recuperare del denaro. Nella speranza di poter aprire un ristorante tutto loro, magari a Shanghai.
RECENSIONI
Aggregati di segni ed emozioni, i personaggi di Hou Hsiao-hsien vivono in una dimensione sospesa tra la sensazione e il sentimento: incapaci di spiegarsi quello che sta loro succedendo, sono in bilico tra l’esperienza fisica e quella affettiva. Si limitano a farsi guidare dagli eventi, ad adattarsi svogliatamente alle circostanze o a reagire istintivamente attraverso conati di ribellione destinati allo scacco. Il cinema di Hou è proprio questo: la registrazione di uno stato fluttuante tra il dato sensoriale e quello sentimentale. Inesorabile, la sua mdp coglie questo momento prerazionale con estrema precisione, affondando lo sguardo in quella zona opaca del sentire in cui l’esperienza non è più sensazione ma non è ancora costrutto affettivo. Questo procedimento di desemantizzazione non riguarda soltanto i personaggi, ma investe anche le coordinate spazio-temporali del suo cinema: le pratiche del piano-sequenza e del surcadrage non rispondono tanto all’esigenza baziniana di rispettare l’integrità cronologica del fatto rappresentato o a quella di esplicitare “modernamente” l’arbitrarietà della messa in quadro, quanto a far sentire la pressione del tempo vissuto, la sua intensità, e ad espandere l’inquadratura oltre la sua cornice, creando uno spazio poroso, perforato, permeabile all’influenza del fuori campo. Un cinema della continuità, in una parola. Goodbye South, Goodbye è la prima pellicola che incarna compiutamente questa poetica dell’indeterminatezza: dopo il bellissimo Good Men, Good Women, film che intreccia dolorosamente passato e presente, Hou Hsiao-hsien si concentra sulla realtà contemporanea, seguendo le peregrinazioni di tre personaggi – Kao, Bian e Pretzel – lungo una Taiwan dilaniata dalle contraddizioni sociali e culturali. Il loro inconcludente e infruttuoso vagabondare traccia un ritratto devastante della contemporaneità: totale assenza di prospettive economiche, corruzione dilagante, sovrabbondanza di criminali di piccolo cabotaggio. Una grammatica della prevaricazione che non lascia alcuna via di scampo: l’euforia alcolica, la religiosità consolatoria e la ribellione individuale sono le sole risposte possibili - e ovviamente fallimentari – ad un’isola infestata da “squali di pozzanghera”, una realtà dominata dall’avidità più aggressiva e sfrenata. In questo senso, pur non essendo pellicola di impianto sociologico, Goodbye South, Goodbye offre un’immagine straordinariamente precisa della Taiwan degli anni ’90. E lo fa con un linguaggio filmico di maestosa purezza: le lunghe inquadrature (non sempre piani-sequenza, fare attenzione) si susseguono con cadenzata eleganza, alternando composizioni di imperturbabile fissità, misuratissime panoramiche, insistiti camera car e addirittura riprese con la macchina a mano (la sequenza del locale notturno per festeggiare l’affare concluso). Nella mezza dozzina di scene da mandare a memoria, impossibile non menzionare il suggestivo tragitto in moto lungo una strada immersa nella vegetazione e il pestaggio di Bian, filmato impassibilmente dall’interno di una stanza buia e magistralmente incorniciato dall’apertura della porta.
