Drammatico, Recensione

GOODBYE DRAGON INN

Titolo OriginaleBu San
NazioneTaiwan
Anno Produzione2003
Durata82'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Un giovane giapponese, in cerca di compagnia maschile, si reca in un cinema semivuoto: sullo schermo un film di successo di 36 anni prima intitolato DRAGON INN. Entrando in sala, il giovane si imbatte anche in due spettatori che hanno le sembianze dei personaggi sullo schermo. Uno di loro, mentre guarda il film, piange. Sono persone reali o spiriti che non vogliono andarsene?

RECENSIONI

Le sequenze di Tsai Ming Liang, lunghe fino all'estenuazione, fino ad esaurimento della pellicola nella macchina da presa ("non riuscivo a fermarmi" ha detto il regista in conferenza stampa), sono alla base dello straniamento che prova chi guarda i suoi film: pochissimi cineasti fanno delle proprie opere una vera esperienza per lo spettatore, Tsai ci riesce. Difficile dunque ricorrere ai soliti parametri e alle consuete categorie: quello del taiwanese è un sistema filmico a sé stante, un trip ipnotico in cui si spendono pochissime parole e che, nei suoi lunghi piani, di minuti che sembrano dilatarsi a dismisura, ospita sempre un risvolto ironico, un dato paradossale, una chiave beffarda. Se per compiere un gesto un personaggio impiega cinque minuti, il regista pensa bene di non farcene perdere neanche un secondo: se questo appare assurdo, allora un montaggio frenetico cos'è? Le scelte del regista non sono provocazione ma cifra stilistica, e se un pericolo c'è è che questa scelta passi per pura maniera, cosa dalla quale è lontanissima. In GOODBYE DRAGON INN l'ossessione dell'autore per l'acqua che scorre è ancora presente: si sente all'interno dei tubi di questo cinema che è esclusiva location della pellicola, la si avverte nelle lunghe pisciate degli avventori nella scena degli orinatoi, negli scarichi delle toilette, nella torrenziale pioggia finale: l'ambiente partecipa del film come sempre, vi si penetra dentro, lo si vive, si interrogano i visi imperscrutabili dei personaggi che lo abitano, vicini nello spazio mentre distanze siderali ne separano le anime. L'ambientazione - una sala cinematografica semivuota in cui si proietta DRAGON INN, oramai diventata ritrovo gay, ricettacolo di varie solitudini - ha una staticità cui fa riscontro la cineticità del film che viene proiettato: vive di contrasti l'opera di Tsai, di nuovo chiusa e crepuscolare, composta di percorsi in lungo e in largo, di vagabondare vacuo in un luogo infestato dai fantasmi di un cinema moribondo, di nuovo terminale e apocalittica dopo gli spifferi di CHE ORA E' LAGGIU'?. BU SAN è soprattutto, infatti, una riflessione sul tramonto di un'era: la sala è all'ultima proiezione, un mondo sta sparendo, lo sguardo della camera fisso sulla platea completamente vuota lo testimonia freddamente, due degli spettatori della pellicola in proiezione sono proprio gli attori di DRAGON INN (uno di loro aveva pianto rivedendosi sullo schermo) che si scambiano un paio di malinconiche battute ("Di noi oramai non si ricorda più nessuno") nel bellissimo finale. La saracinesca viene abbassata. La sala chiude per sempre.

Il regista malese naturalizzato taiwanese Tsai Ming-Liang ci ha ormai abituato alla sua visione, attraverso un cinema che si può definire dell'assenza. Assenza di ritmo, di avvenimenti, di dialoghi, spesso anche di musica. Eppure nei suoi lungometraggi appare con forza l'interiorità dei personaggi rappresentati, in genere vittime di incomunicabilità, pulsioni represse e devastante solitudine. Temi che attraversano tutta la filmografia del regista, dal Leone d'Oro "Vive l'Amour" al più ottimista "The hole - Il Buco". In "Bu San" il fulcro dell'azione è un decadente cinema, in cui viene proiettato un vecchio film intitolato "Dragon Inn". Negli ottanta minuti di proiezione assistiamo alla cronaca dell'ultima giornata di funzionamento della sala prima della chiusura definitiva: lo zoppicare della cassiera che pulisce i bagni, mangia, porta il cibo al proiezionista e il via vai del pubblico, quasi esclusivamente maschile, che sfrutta l'oscurità per improvvisare approcci sessuali. Il primo dialogo, oltre a quelli di sottofondo del film in programmazione, arriva dopo un'ora di film ("È infestato dagli spiriti!", "Il cinema è ...", "... gli spiriti!") e dice anche troppo. Più evocative, nel loro lento reiterarsi, le immagini in successione, quasi tutte inquadrature fisse o lunghi piani sequenza. A tratti insostenibile, comunque estenuante nonostante il breve minutaggio, il film riesce con forza ad essere comunicativo e a rendere vivo e pulsante il tormento dei personaggi. I tempi morti al cubo escono dal vezzo autoriale e imprimono personalità a uno stile coraggioso e inaspettatamente potente. Peccato per l'aria nostalgica che si respira. Da un linguaggio così estremo ci si aspetta uno sguardo sul futuro, se non di speranza perlomeno di lucido pessimismo, al limite una riflessione sul presente, ma non un rifugio nel passato e nella nostalgia del bel tempo che fu.

Un (non) film quasi immobile e immutabile, solcato da impercettibili appigli tramici, letteralmente popolato da ombre e fantasmi; lo scorrere del tempo filmato nel suo semplice farsi, senza 'divenire', e il primo e ultimo esempio di post-cinema fossile. E' questo, forse, 'l'ultimo' film di Tsai Ming-Liang: la morte del cinema celebrata epurando il (sottraendo dal) Cinema che fu per lasciare solo morte al lavoro e pallidi ricordi, un cadavere sul viale del tramonto che racconta, contempla, celebra e piange il proprio addio. Bellissimo e/o inguardabile.