TRAMA
“Dopo che una maldestra rapina in banca fa finire in prigione il fratello minore, Constantine “Connie” Nikas (Robert Pattinson) intraprende una complicata odissea nei bassifondi della città nel tentativo, sempre più disperato e pericoloso, di fare uscire di prigione Nick (Benny Safdie). Nel corso di una nottata carica di adrenalina, Connie si trova a lottare contro il tempo per salvare il fratello ma anche se stesso, consapevole che le loro vite sono appese a un filo” (dal pressbook).
RECENSIONI
Thriller metropolitano
Eccoci di fronte a uno dei film più radicalmente dirompenti del 2017: 100 minuti che filano via come 100 secondi, ritmo tiratissimo e tambureggiante ma senza la minima trascuratezza nella costruzione dei personaggi e una simbiosi tra immagini e musica che mette letteralmente i brividi. Good Time è una pellicola - proprio così, 35 mm e formato nientemeno che 2.35 : 1 (CinemaScope, per intenderci) - in stato di grazia: tutto sembra girare alla perfezione in questo gioiello adrenalinico e lisergico che concentra in un arco di tempo ristrettissimo il tentativo di Connie (Robert Pattinson) di togliere il fratello ritardato Nick (Benny Safdie, anche co-regista insieme al fratello Josh) dalle grinfie delle istituzioni (i servizi sociali prima e il carcere poi). A pervadere di vibrante energia cinetica una storia già travolgente ci pensa inoltre il soundtrack di Oneohtrix Point Never (al secolo Daniel Lopatin), uno dei massimi geni della musica contemporanea. C'è di che strapparsi i capelli, insomma, senza rimpiangere i thriller metropolitani di nomi più altisonanti e senza lamentarsi della mancanza di originalità, tipico argomento di chi vorrebbe che il cinema si reinventasse con la regolarità di un orologio elvetico. A questo proposito, mi limito a ricordare quanto diceva Jean-Pierre Melville a Rui Nogueira: "Non ho mai voluto reinventare il cinema, continuo a detestare le invenzioni che vengono regolarmente rinnovate!". Credo sia più che sufficiente per chiudere definitivamente la questione.
Good Time basta a se stesso, non recluta distretti cinefili per farsi bello o forte di ascendenze aristocratiche. L'ossessione che lo permea proviene semmai da testi come The Executioner's Song (1979) di Norman Mailer o In the Belly of the Beast (1981) di Jack Henry Abbott: ossessione per il movimento e la libertà. Ed è proprio lo splendido adattamento del libro di Mailer realizzato da Lawrence Schiller nel 1982 che è stato proiettato dai Safdie alla troupe una settimana prima della produzione vera e propria: un film per la televisione di 135' fotografato da Freddie Francis con Tommy Lee Jones e Rosanna Arquette sulla vicenda del celebre criminale Gary Gilmore. Ma anche di questo illustre precedente si perdono le tracce in Good Time, salvo indovinarle nella miscela esplosiva di impulsività e affettività incontrollata che permea il personaggio di Connie: la combinazione di iperattività manipolatoria e facciata innocente trova difatti nei lineamenti e nel corpo di Pattinson una sintesi folgorante.
Forma breve e struttura da fiaba
Girato rubando inquadrature per la strada, montato con frammenti spaziali che costruiscono una mappa emotiva di New York e ossessivamente concentrato sui dettagli che generano progressione drammatica, Good Time incarna alla perfezione il principio di forma breve, sviluppandosi, nonostante la durata da lungometraggio, secondo la logica della rapidità e della densità espressiva. Per assurdo, si potrebbe prelevare un segmento qualsiasi di film e vederlo come un trailer o un videoclip: l'accuratezza compositiva (10 mesi di montaggio) e l'impasto audiovisivo (la simbiosi tra colonna visiva e colonna sonora) che lo connotano lo rendono un trailer-video pressoché permanente (spesso il soundtrack di OPN irrora l'intero tappeto sonoro delle sequenze, trasformandole a tutti gli effetti in clip potenziali, se non addirittura ufficiali). Detto altrimenti, ogni segmento appare come una forma breve che si concatena alle altre fino a coordinarsi in un lungometraggio che mantiene l'impronta di questa logica sintattica ad altissima coerenza e coesione interna.
A permettere un arrangiamento sintattico simile è sostanzialmente la struttura basica che sorregge l'intera vicenda, una struttura elementare da fiaba che propone canonicamente l'oggetto-valore fragile da salvare (il fratello autistico Nick), l'eroe senza paura che tenta di acquisire le competenze per completare il suo mandato secondo le modalità del dovere, volere, sapere e poter fare (Connie, giusto per fare un esempio, non possiede i dollari per pagare la cauzione del fratello, il suo poter fare è limitato) e gli aiutanti/oppositori che l'eroe incontra sul suo cammino (aiutanti: Corey e Crystal; oppositori: garante delle cauzioni e guardia giurata, con Ray che oscilla tra le due funzioni). Good Time, insomma, è una fiaba travestita da thriller metropolitano e la sua matrice strutturale è così elementare e duttile da tollerare variazioni o torsioni praticamente illimitate (non soltanto la brevità formale di cui sopra, ma anche l'inflessione antirazzista che si legge in filigrana nell'intero film). Ovviamente il macronemico è rappresentato dalle istituzioni totali (servizi sociali, forze dell’ordine, prigioni, ospedali) che impediscono la realizzazione del desiderio di Connie, con lo psicologo della sequenza iniziale a rappresentarne il volto apparentemente affabile e comprensivo.
Mélo sotto mentite spoglie
Eppure lo spunto più perversamente affascinante offerto dalla pellicola di Josh e Benny Safdie si annida in una posizione ancora più nascosta tra le pieghe del testo. Sebbene quella di Good Time sembri e si presenti come una storia all'insegna dell'affetto fraterno (Connie che intende proteggere a modo suo il vulnerabile fratellone Nick), basta allontanare di poco lo sguardo per accorgersi che la loro è un'autentica storia d'amore. Detto più semplicemente, Good Time non è soltanto una fiaba travestita da thriller, ma è anche un mélo sotto mentite spoglie. I segnali a bassa intensità che suggeriscono un'interpretazione simile sono numerosissimi: l'abbraccio tra i due nell'ascensore immediatamente prima del titolo del film, con Connie che, visibilmente commosso, bacia più volte il fratello sussurrandogli "I love you"; il modo in cui Connie tratta il fratello durante e dopo la rapina, stando sempre attento alle sue reazioni e accudendolo premurosamente; la riluttanza di Nick a scaricare la responsabilità su Connie nonostante le pressioni subite in carcere; il desiderio comune di trasferirsi in Virginia dove, come si evince dalla telefonata di Nick in prigione, i due potranno comprare una fattoria con i soldi della rapina per vivere insieme senza preoccupazioni.
Ma, più in generale, è la tonalità sentimentale del film, con Connie che tenta disperatamente di soccorrere il fratello strumentalizzando tutte le figure femminili sensibili alla sua bellezza, a suggerirci una tensione amorosa che va ben al di là della semplice consanguineità. Connie e Nick non si vogliono soltanto bene, ma hanno bisogno l'uno dell'altro come due amanti inseparabili: non occorrerebbe altro che sostituire Nick con una donna avvenente per avere un mélo in piena regola infiammato dall'amour fou (le coppie criminali al cinema hanno un repertorio così consistente che non mette conto citare titoli di rinforzo). Good Time è precisamente il frutto di questa permutazione omoerotica: il colloquio di sguardi a distanza nell'epilogo suggella infine la sua appartenenza alla tradizione dell'amore impossibile. E anche per questo spostamento criptato lo salutiamo come uno dei film più avvincenti, appassionanti e spregiudicati dell'intera stagione cinematografica. Sui titoli di coda, se non bastasse, Iggy Pop tira le somme a chiare note: The pure always act from love / The damned always act from love.