TRAMA
Liang Ching, un’attrice, riceve via fax le pagine del suo diario, che le ricordano la storia d’amore con Ah Wei, morto tre anni prima. Per il cinema interpreta il ruolo di Chiang Bi-Yu, una giovane militante nella Taiwan anni ’40, dove, dopo la ritirata dei giapponesi che governavano l’isola dal 1895, gli oppositori politici e i comunisti venivano perseguitati dopo essere stati dichiarati fuorilegge dai nazionalisti del Kuomintang guidati da Chiang Kai-shek. (dal booklet del film)_x000D_
RECENSIONI
A chiudere un’ideale trilogia sulla storia taiwanese, a imprimere su pellicola l’eco altrove evocata del Terrore Bianco, a intensificare radicalmente il nucleo centrale della poetica di Hou, il cogliere nel tempo, il cogliere il tempo: chiamato a soddisfare tali intenti Good men, good women risponde disarmando per densità, per l’evidenza con cui restituisce complessità alla realtà messa in scena, per l’esperire vibrante e lancinante di un’immagine in grado di cristallizzare in semplicità tempo, vita, storia. L’eticità dello sguardo trapassa il neorealismo, all’insegna di un guardare ma non intervenire, osservare ma non giudicare che emancipa ogni gesto dall’immediatezza, concedendogli finalmente non solo tempo, tramite lunghi pianosequenza, ma anche spazio vitale: la mdp rifiuta senza appello l’enfasi del primo piano, prediligendo una prossemica più pudica, che dal campo medio giunge sino al lungo, al fine di permettere lo sviluppo di una relazione tra corpi e contesto, tra persone e storia, tra oggetti e scorrere temporale. Intorno al corpo e nella mente di Liang Ching si infrange la narrazione: il presente e il passato che le appartengono, la vita di Chiang Bi-Yu (che impersona nel film all’interno del film), ricordi, vicende personali, la Storia e i suoi spettri si giustappongono senza soluzione di continuità, dimostrando l’assenza di gerarchia tra i piani, così che il tempo più che in frantumi si riduca al collasso, evitando Hou le posticce simmetrie, i semplici raccordi di senso, il facile confronto tra epoche. Ovvio poi che nei fotogrammi di Good men, good women si raggrumi l’avvenuto mutamento antropologico, che dall’altruismo martirizzante del patriottismo regredisce all’individualismo più involuto, ma l’approccio è ben distante dalla radiografia impietosa dei personaggi, concentrato com’è sul mostrare senza incanalare il significato, sul suggerire un sentire inesprimibile, rappreso nel susseguirsi fluido di questo non-tempo, appreso senza essere detto, messo in scena ma mai espresso. Tramite una dialettica tra reiterazione e scarto Hou addensa sui frame dei suoi film l’ambiguità del reale, accennandola per accumulo: Good men, good women scioglie ogni quanto temporale per restituire la sfuggente complessità addensata nel ritratto di una donna, delineato da correnti che travalicano la storia, la psicologia, l’eredità. In ogni inquadratura si respira un fluire indefinito, in ogni corpo il tempo. Un capolavoro, l’ennesimo, di un cineasta ineguagliabile.