TRAMA
1. Storia di Totò: addetto alla consegna della spesa per conto della madre, l’adolescente Totò (Salvatore Abruzzese) è coinvolto a forza nella guerra tra gruppi che si scatena nelle Vele di Scampia; 2. Storia di Don Ciro e Maria: “sottomarino” (ossia porta-soldi) di lunga data per il clan dominante, Don Ciro (Gianfelice Imparato) si vede costretto a depennare dalla lista la signora Maria (Maria Nazionale), a causa del passaggio del figlio tra le fila degli scissionisti; 3. Storia di Franco e Roberto: stakeholder dei rifiuti tossici in combutta con la camorra, Franco (Toni Servillo) decide di prendere con sé il giovane Roberto (Carmine Paternoster) “per dargli un’opportunità”; 4. Storia di Pasquale: sarto di talento sfruttato da sempre dal datore di lavoro, Pasquale (Salvatore Cantalupo) accetta l’offerta di tenere dieci lezioni a duemila euro l’una per il laboratorio di Xian (Zhang Ronghua); 5. Storia di Marco e Ciro: insofferenti all’autorità dei clan, i giovani Ciro (Ciro Petrone) e Marco (Marco Macor) emulano le gesta di Scarface, derubando chiunque e ignorando ripetutamente gli avvertimenti dei boss della zona.
RECENSIONI
Signori, l'incubo è servito: cinque spaccati dall'interno/inferno del sistema camorra che riscrivono integralmente le coordinate del cinema nero. Garrone domina Gomorra. Domina la materia: strappando le pagine di troppo del romanzo no-fiction di Saviano, sfronda il testo di partenza dalla platealità della denuncia e dagli ingombranti cascami retorici. Domina i luoghi: facendo delle Vele di Scampia il baricentro spaziale del film, conferisce alla raggiera di racconti un'unità ambientale di sontuoso equilibrio. Domina il composto attoriale: affiancando a professionisti acclamati (Toni Servillo, Gianfelice Imparato) interpreti presi dalla strada (in realtà attinti dalla compagnia teatrale Arrevuoto attiva a Scampia), irruvidisce la misura dei primi e ammorbidisce le asprezze dei secondi (la teoria baziniana dell'amalgama trova qui esemplare inveramento). Domina lo zapping narrativo: improvvisi come fraseggi be-bop, i singoli segmenti frantumano la cornice per tracciare una crestomazia del delitto. E, soprattutto, domina la macchina-cinema: superati i virtuosismi de L'imbalsamatore e le privazioni di Primo amore, Garrone padroneggia finalmente l'apparato Fandango, restituendo alla sua macchina a mano (l'operatore, per contratto, è lui) la miracolosa esattezza di Silhouette (cortometraggio del 1996 poi inserito in Terra di mezzo) e di Estate romana. Come segno di riconoscenza la realtà regala alla sua cinepresa non tanto l'inflazionata bellezza rosselliniana (lo splendore del vero) quanto l'impalpabilità, l'assoluta sintonia con le vicende rappresentate. Assediate dal fragore dei rumori fuori campo (determinante il ruolo di Leslie Shatz, sound designer dei film di Gus Van Sant), ottenebrate dalle tonalità plumbee della fotografia di Marco Onorato e orchestrate dal maestoso montaggio di Marco Spoletini, le immagini di Gomorra spappolano la concezione di cinema nero che abbiamo avuto fino ad oggi, conficcandosi con inaudita incisività nel tessuto del reale. Ma chi ha tirato in ballo la stagione del neorealismo ha totalmente frainteso il film: Gomorra è un noir sociale orgogliosamente alieno da ogni sociologismo. Non un cencioso film di denuncia, ma un'opera stridentemente politica. Nel solo modo in cui un film può davvero essere politico: nel linguaggio.
Rispettando quello che lui stesso ha dichiarato essere l’assunto di partenza dell’opera – “A Gomorra gli dei non si vedono” – Garrone ci offre una prospettiva di racconto inedita sul mondo della criminalità: tutti gli elementi caratteristici dell’iconografia cinematografica della mafia cui siamo abituati – boss e strategie di potere, traffici illeciti, lotte intestine, infiltrazioni in settori dello Stato – scompaiono o restano sullo sfondo, movimenti oscuri cui a volte si fa riferimento. Oggetto del racconto di Garrone non è il funzionamento di una complessa macchina criminale, non ci sono quegli intenti divulgativi che esigerebbero una precisione fatta di nomi e numeri, propri invece del libro di Saviano; c’è piuttosto una domanda di fondo: cos’è, o meglio, chi è la camorra?
Per tutta la durata del film Garrone elabora una risposta articolata e scevra di pregiudizi: le immagini costruiscono una dopo l’altra un volto complesso, multiforme: dal sottosuolo mafioso emergono storie, drammi, facce diverse di una realtà composita che Garrone è attento a restituirci intatta, senza formulare giudizi, limitandosi a porre problemi. Con il suo stile rigoroso e appassionato ci conduce in un universo oscuro: quello delle comparse del gioco mafioso, persone comuni coinvolte in maniera più o meno consapevole e che ne costituiscono il nerbo profondo.
Garrone segue le storie – che si intrecciano tra loro – di un gruppo di personaggi senza incastrarle in una struttura a episodi, ma giustapponendole l’una accanto all’altra come parti di un unico affresco; riesce a trovare il giusto equilibrio tra approfondimento individuale e dramma collettivo e con poche, potenti immagini, costruisce personaggi intensi. A questo proposito il regista riesce a restituire punti di vista diversi attraverso una focalizzazione interna alternata: con una mobilità di macchina vertiginosa entra nei personaggi, ne segue i passi e, attraverso un massiccio uso di soggettive e semisoggettive, restituisce una visione dello spazio parziale, accentuando il senso di claustrofobia dello spettatore, come “prigioniero”; eredita la lezione del neorealismo, ma la immerge nel presente, riscrivendola: scompare allora la fiducia nell’umanità che caratterizzava i personaggi di De Sica e Rossellini e nella tragedia degli ultimi del ventunesimo secolo sembrano non esserci possibilità di scelta o punti di riferimento morali.
Senza negare la coralità dell’affresco, conviene qui fare riferimento a una delle cinque storie che attiva, forse più delle altre, diversi livelli di senso: quella di Marco e Ciro, due ragazzi che sognano di formare un’organizzazione criminale autonoma dai clan. Tra le cinque è innanzitutto quella più vicina alla sensibilità del Garrone dei film precedenti: il regista, come già neL’imbalsamatore e in Primo amore, crea figure ambigue, avvicina elementi in contrasto tra loro e nella dialettica interna ai personaggi si riproduce l’eterno conflitto tra Eros e Thanatos, tra una forza positiva, catartica (nei film precedenti rappresentata dall’amicizia e dall’amore e qui dalla dimensione di gioco e sogno adolescenziale) e una negativa, che conduce a morte e che prevale (lì il possesso, nelle forme della dipendenza lavorative e dell’ossessione per la magrezza; qui la violenza). Garrone riesce a rendere credibile l’operazione azzardata di mettere insieme gli opposti da un lato dando corpo visivo unitario, “sintetico” all’antitesi – si pensi alla scena splendida e terribile degli spari sull’acqua – e dall’altro conservando intatta la forza primigenia delle pulsioni che la compongono, senza fonderle l’una nell’altra: lo spettatore prova, in maniera congiunta e distinta al tempo stesso, tenerezza per il sogno dei ragazzi e orrore per la violenza di cui questo si sostanzia. Ma c’è anche dell’altro e la vicenda dei due ragazzi costituisce, a mio parere, la chiave di volta dell’intero film. Marco e Ciro vivono la loro esperienza di criminalità nei termini del gioco: le loro azioni non sono regolate da una logica che preveda effetti in prospettiva: si ruba coca, si svaligiano sale giochi, si cercano armi nascoste senza nessun fine esterno all’atto stesso. La storia di Marco e Ciro è allora emblematica dello straripare di una mentalità violenta che perde ogni giustificazione concreta, per diventare autofinalizzata e autoreferenziale e arriva a invadere le regioni più profonde dell’individuo: quelle fantastiche del sogno e del gioco. La camorra non si impone solo a livello politico-economico, come una sorta di micro-tirannia, ma plasma la mentalità comune, dà forma alle menti; il suo dominio è totale e si estende ben oltre i confini fisici, appropriandosi degli infiniti spazi del pensiero. Garrone rifugge ogni interpretazione univoca e evita di svolgere il nodo di fattori che determinano il potere di Gomorra, ma permettendoci di seguirne le dinamiche dal punto di vista di quelli che lo subiscono, si limita a suggerire spunti (assenza di pensiero critico, volontà di affermazione personale, vuoto istituzionale, scarsità di alternative), che aprono possibilità di lettura diverse.
Cast così perfetto e uniforme – merito di una straordinaria direzione degli attori – che Servillo, ottimo come al solito, non spicca. Si scoprono insospettate doti di attrice in Maria Nazionale che, per i profani, è una delle vette del panorama neomelodico partenopeo.
Garrone “estrae” abilmente dall’opera omonima di Saviano un distillato diegetico che diviene pellicolarmente nuovo reimpasto narrativo, una sorta di ulteriore sguardo inedito sulla materia trattata, flusso interrotto e intermittente per l’estrapolazione di nuovi sensi. Sillogizando in qualche modo e sincopando la narrazione con intersecazioni visive affabulatorie, deroga come è ovvio che sia all’immagine sola il logicismo dei rapporti di causa e effetto meticolosamente evidenziati dalla scrittura di Saviano. È in sostanza un’operazione quasi chirurgica di disossamento testuale quella compiuta da Garrone nei confronti del referente letterario, una scelta estremamente personale di certo non dettata da ellissi temporali obbligate (considerando il differente canale espressivo), né da studiate sottrazioni eseguite per semplificazione, che implementa elementi di analisi al testo di Saviano, garantendone un diverso percorso di avvicinamento, con slittamenti semantici e significativi mutamenti di segno all’interno di un ragionamento coesteso e limitrofo. Se Saviano mostra e dimostra attraverso pagine dense di accadimenti e di nomenclature il dispiegamento di tutta una metafisica del potere verticalizzandosi su precise linee di compasso tracciate a partire da nomi, reti, gangli, organigrammi in maniera lucidamente razionalista e “deduttiva”, Garrone preferisce abbandonare assiologie apodittiche e procedere “per induzione” all’interno di suggestioni visive che (ri)collocate su un piano di senso possono suggerire senza clamori pur nella loro apparente disgiunzione quasi episodica l’universalità di un’idea di Sistema. Garrone adotta un procedimento non meno indifferente ma neanche così dimostrativamente assertivo offrendo un approccio totalmente orizzontale, rimanendo attaccato (quasi dardennianamente) ai personaggi e alle loro storie, e ai loro più o meno preventivati sviluppi. Anzi in alcuni casi lo sviluppo narrativo sembra voler essere sostituito dall’idea di deriva, molto più aderente alla erlebnis delle figure che abitano quelle latitudini e che in quegli scenari sembrano dover alla fine scontornarsi, come Pasquale il sarto. Anche se poi questa idea di “liquefazione” attanziale non appartiene a tutta la struttura del film. Saviano cerca con puntigliosità giornalistica il groviglio razionale di un logos che tutto sembra sottendere in uno scenario in cui il neoliberismo si sposa a rituali di violenza millenaria evidenziando lo scarto esistente tra vecchie metodologie cutoliane e nuove generazioni teoriche, trasformando l’immaginario di derivazione anche cinematografica dall’antica guapparia al gangsterismo neohollywoodiano, annunciando altresì una riterritorializzazione delle zone periferiche del napoletano (Secondigliano, Scampia) come (non)luogo virtuale/reale in cui far giocare anche (o forse soprattutto) mediaticamente (finalmente la massiccia presenza studiata, voluta, pretesa delle telecamere, fino ad allora sapientemente sfuggite dai protagonisti della latitanza) le sorti dell’esistente, poiché le nuove strategie coschiste non possono non sfruttare i nuovi linguaggi della comunicazione, e non possono più rimanere al di fuori del privilegiato perimetro della società dello spettacolo, troppo spesso decisivo nel determinare e nel definire a livello iconografico i nuovi modelli di riferimento di una rinnovata Gomorra. Garrone al contrario decide di rimanere implacabilmente (ma in questa “prossimazione” anche con sinceri afflati di pietas) ancorato ai volti e ai luoghi e al racconto che si tesse a partire dalla minimale fatticità del quotidiano. Sembra anzi voler ripartire da un discorso mai veramente interrotto, quello di Le mani sulla città di Rosi, per cui il principio di tragedia di certa geografia umana è già inscritto nelle estetiche terrificanti delle architetture urbane, delle speculazioni edilizie (Le Vele, le Case dei Puffi), simboli di una disorganicità subumana votata a sudditanze sorde e violente inemancipabili. La decadenza descritta da Garrone, come in Ospiti, come ne L’imbalsamatore, è sempre antecedentemente un degrado estetico prima che etico, è sempre un profilarsi di traiettorie sghembe da parte di individui semoventi all’interno di un paesaggio inabitabile che li respinge, quasi un moto perpetuamente obbligato e circoscritto (come quello del “sottomarino” don Ciro) che vorrebbe somigliare a una fuga. Per questo Garrone non ha bisogno di una fabulizzazione declinata sul genere, perché la tragedia rimane al di qua del noir, è già tutta lì davanti senza necessità di infingimenti, è già nell’immagine, tratteggiata sulle maschere, dipinta sui muri, annusata nelle strade rionali e periferiche, prodotta dall’ennesima sconsolante teogonia del disastro.
Ci sono due movimenti che animano le immagini di Gomorra, e conducono il filo rosso che attraversa il film.
Il primo è un oscillare continuo da un punto ad un altro - e ritorno -, come una fluida cantilena che bagna la narrazione; gli 'eroi' del film, immersi in una sorta di dimensione placentare, replicano ad ogni stimolo - interno ed esterno - con il solo supporto del volto. Sono, questi, volti vicinissimi, come anime non ancora nate appoggiate ad uno specchio mentre il resto si agita 'al di là', in un non-luogo certo fisico, 'sentito' e vivo, ma in preda a un dissolvimento perpetuo. Quelli di Totò, Roberto, Don Ciro, Pasquale, Ciro e Marco, sono tutti volti organici protesi, ognuno a suo modo, verso un desiderio di ri-nascita che avanza attraverso il fuori fuoco e lì spesso rimane, riflesso di riflessi. L'altro movimento è invece un non-movimento. Lo spazio viene a definirsi come una costellazione entro la quale si fermano i punti limite di un universo (non solo narrativo). Astraendosi in una distanza lapidaria imposta dalla macchina da presa, il nudo luogo si fa monito e colpa, presagio e tomba, e circoscrive un teatro di guerra apparentemente senza principi né principio (e fine). Una città sorta dal nulla del deserto e in questo deserto esiliata.
È però attraverso questa doppia negazione (un non-luogo e un non-movimento), o meglio dal contrasto con essa, che il volto, fulcro eroico della rappresentazione, può imporsi con tutta la sua espressiva autorità. 'Eroico', dico, per quella sofferta insistenza con cui si lascia impossessare dallo sguardo, anche quando tutto intorno a lui impazza in un estraneo rumore. Ed è sempre qui, sul volto, che la camera sosta a lungo per sondare una ad una, proprio come se fosse un'ultima, luminosa costellazione, quelle particolari ed umanissime 'esperienze climatiche' che hanno fatto sì che l'uomo - ogni uomo - diventasse quello che è. Il più piccolo dato afferrato diventa pertanto una preziosa intuizione per una possibile verità; ma alla risposta, forse, ci avviciniamo solo in quello splendido paradosso iconografico che è la sequenza finale: ciò a cui alla fine assistiamo è un'esecuzione completata con una sfilata, dove i corpi degli eroi, portati 'in trionfo', sono negati di fronte a vuote file di astanti.