Animazione

GNOMEO E GIULIETTA

TRAMA

A Verona Drive, nell’odierna Stratford upon-Avon, due famiglie di nani da giardino (gli uni rossi, gli altri blu) si fanno guerra da tempo immemore. Un amore sorto tra il blu Gnomeo e la rossa Giulietta metterà  fine alla storica rivalità.

RECENSIONI


Non c'è fondo al cattivo gusto delle beffe postmoderne. Lo conferma Gnomeo e Giulietta, il cui soggetto da barzelletta ben si presta, nella sua trita eccentricità, ad ennesima, avvilente dimostrazione dell'esaurimento barthiano di storie e d'idee. Sono veri e propri nani di terracotta ad abitare questa bislacca rivisitazione della tragedia scespiriana, ironiche incarnazioni dei versi con cui Romeo si scherniva “stupido involucro di creta” e s'ordinava d'irrigidirsi sulle proprie orme (atto II, scena I). Nel microcosmo acquarellato e chiassoso di Gnomeo e Giulietta tutto va preso alla lettera, il mondo può ridursi a giardino e l'antico dramma a favola farsesca. Si (vorrebbe) canta(re) dell'insicurezza degli oggetti, dei loro tumulti umanissimi, di come si possano rianimare di nascosto, al riparo dagli sguardi umani, e di come al cospetto di quest'ultimi siano costretti a congelarsi, immoti, come i giocattoli di Toy Story. Anche gli gnomi da giardino di Gnomeo e Giulietta pagano la verosimiglianza materica con una nuova fragilità, essendo la morte (per sgretolamento) una possibilità viva e vicina, ma non si freme quasi mai per l'incolumità di questi giocattoli: un abisso (di forma e di morale) divide i due film, uno scarto incolmabile di originalità, profondità e pathos. E per quanto le pretese siano tutt'altre (si anela alla parodia senza, tuttavia, confessarla apertamente), rimangono ingiustificabili l'approssimazione del racconto (sfibrato da civetterie musicali e pleonastici inside jokes), la bidimensionalità dei personaggi (smagriti a pure funzioni narrative) e la pochezza delle trovate comiche (quasi mai di prima mano). La schiera d'oggetti antropomorfizzati diverte unicamente quand'è richiamata alla verità dei vincoli fisici, e di colpo si rapprende lo spirito umano(ide) in materia inanimata (scriveva Bergson: si ride di una persona ogni qualvolta ci dà l'impressione di essere una cosa). Non si tratta solo di singoli personaggi, come il pesciolino di plastica che aspira alla libertà ma s'incaglia puntuale sul fondo, o la coppia di nani impossibilitati a dividersi perchè riuniti da un unico basamento; anche i giochi di parole vertono sul medesimo spostamento linguistico (“Benedetti i suoi cocci”, “Mo' so' cocci”, “Ci sono già stati troppi frantumamenti” e “Che riposi in pezzettini”, dove si perde l'originaria assonanza tra peace e pieces) e almeno un altro paio di gag verbali insistono, alla lettera, su rischi e disagi del vestire un corp(ett)o di ceramica (come quando Capuleto rimprovera la figlia d'esser troppo “fragile”, o quando Romeo, in procinto d'accomiatarsi da Giulietta, le confessa di “non riuscire ad andarsene” non per lo struggimento dell'addio, ma perchè incastratosi nella finestra dell'amata).


Ad un motivo comico archetipico, ribadito qui ad nauseam, s'accompagna un citazionismo ormai d'ordinanza, da declinarsi in automatismi visivi mediamente raffermi e gratuiti: se è ancora godibile, persino ficcante, il riferimento iniziale alla sfida automobilistica di Gioventù bruciata (ridimensionata a gara tra tagliaerba), risultano stucchevoli e fuoriluogo i parassitari rimandi al wuxiapian (l'escursione notturna di Giulietta, con tanto di bullet time e sottotitoli ideogrammatici) o alle riconoscibili griffe di Borat (il costumino di uno dei Capuleti) e American Beauty (il bagno di petali al ralenti), sintomi d'indolenza creativa abbigliati ad argute frecciatine pop (poco decifrabili, per giunta, dai bambini cui sono rivolte). Inevitabili gli ammicchi alla restante opera scespiriana, generalmente pedestri (il biglietto di As you like it, il camion della Tempest Teapots, la ditta di traslochi Rosencratz e Guildestern) e con una sola eccezione gustosa (i numeri civici delle cas[at]e rivali sono 2B e 2B, contrazione numerica dell'amletico to be/not to be). Nell'abituale guazzabuglio enumerativo (da cui non sfugge questa stessa recensione), si staglia il cammeo del Bardo in (bronzea) persona, sbeffeggiato e contraddetto dalla festosa riscrittura shrekspeariana: è la sola (pseudo)sovversione del film, non l'auspicabile emancipazione dal Testo, bensì un'ultima e distratta correzione d'umori, utile a comprovare, com'era da subito evidente, la fallibilità del deus ex machina e l'indiscusso primato del lieto fine.


Intonato al tenore estetico di certa statuaria da giardino, in Gnomeo e Giulietta il kitsch diviene chiara dominante stilistica: nel giardino dei Blu si sfoggia con orgoglio un ingombrante gabinetto monumentale e nelle fughe musical s'occhieggia alla pacchianeria del modernariato luhrmanniano (Romeo + Giulietta), mentre le invadenti greatest hits di Elton John (produttore esecutivo) riescono nella difficile impresa di render ancor più melenso quel ch'era già iperglicemico (si rimpiange, in fatto di cattivo gusto, l'acido estro di Tromeo and Juliet). Kelly Asbury, ex animatore della Dreamworks approdato alla Disney, compie sì un passo avanti rispetto allo sciapo Spirit – cavallo selvaggio, affetto da un sordo manicheismo e da un'ampollosa seriosità, ma delude le alte aspettative meritate con il mordace Shrek 2 firmando un'operina incolore e derivativa, tanto brillante e precisa nelle finezze grafiche (evidenti nelle minime sbrecciature dei nanetti più vissuti, e pur sempre tra i friabili steccati del grazioso), quanto stinto e dozzinale nella rilettura blanda e nell'humour di riporto. Nonostante il nutrito team di sceneggiatori, tra cui si segnala il geniale illustratore Andy Riley (autore de Il libro dei coniglietti suicidi), Gnomeo e Giulietta ha ben poco da vantare in termini di scrittura - forse solo il tonitruante spot del super-tagliaerba Terrafirminator (doppiato, nell'originale, da Hulk Hogan) e la figura del fenicottero daltonico Piumarosa, sorta di Frate Lorenzo in pvc (il cui svelto flashback rievoca -non a caso- lo struggente incipit di Up!). Infine, la nota più dolente va all'irricevibile edizione italiana: il kitsch sovrano è difatti rincarato (e surclassato) dal doppiaggio dialettale più molesto e ideologicamente sospetto dai tempi di Fritz il gatto, un pessimo esempio di secessionismo vocale dove i Blu, mansueti e operosi, parlano con accento veneto-milanese e i Rossi, illetterati e bari (come il rissoso Tebaldo), s'esprimono con cadenza siculo-campana (peraltro, l'idea di combinare il dramma di Shakespeare ai regionalismi italiani non è affatto nuova: già ne I fichissimi di Carlo Vanzina si assisteva alla variante “terrunciello”-meneghina della faida Montecchi-Capuleti). Fatta salva la parlata romanesca di Piumarosa (doppiato da Pannofino), ovvio trait-d'union linguistico nel suo ruolo di paciere, questo doppiaggio posticcio, estraneo ai bei timbri originali e ben poco comprensibile ai piccoli spettatori, stronca la comicità residua e dà il colpo di grazia ad un film inane e decorativo. Come i suoi gnomi.