Drammatico, Recensione

GLI ANNI PIÙ BELLI

TRAMA

La storia di quattro amici, raccontata nell’arco di quarant’anni, dal 1980 ad oggi, dall’adolescenza all’età adulta. Le loro speranze, le loro delusioni, i loro successi e fallimenti sono l’intreccio di una grande storia di amicizia e amore attraverso cui si raccontano anche l’Italia e gli italiani

RECENSIONI

Could it be that... it's just an illusion?

Quarant’anni di storia d’Italia attraverso le vite studiatamente emblematiche di quattro personaggi i cui percorsi si incrociano, si distanziano, confliggono. C’eravamo tanto amati come riferimento principe, dichiarato riflesso. Una vecchia fissa: anni fa si parlava di un remake americano del film di Ettore Scola che Muccino avrebbe dovuto dirigere, ma qui non di remake si tratta e neanche di una semplice rilettura: qui il regista, come ha fatto Damien Chazelle col musical in La La Land, di un certo cinema italiano celebra il funerale, «citando figure leggendarie come si potrebbe citare un poema in una lingua morta, senza tentare nemmeno di riprodurne i suoni originali» (quoto la mia recensione del film con Emma Stone e Ryan Gosling). Lo capirà il pubblico che va a vedere il film? Non importa, come non importava che lo spettatore di La La Land avesse visto un film di, chessò, Vincente Minnelli: l’operazione c’è, che se ne sia consapevoli o no, perché c’è un film che dal suo discorso teorico non si fa risucchiare.
Constatato che i presupposti storici del film di Scola non esistono più, Muccino si appropria del nudo schema e - ribaltandone gli assunti, confondendone le piste, ibridandone le figure - mette in scena una generazione diversa, la sua, a cui guarda da sempre: quella condannata al disimpegno, che le lotte partigiane può solo farsele raccontare e che se ha combattuto per un ideale, lo ha fatto illudendosi (illusion, illusion, illusion) che ne esistesse uno (rivedersi Come te nessuno mai per comprendere con quanto disincantato realismo già allora il regista raffigurava la generazione «che non si lascia un cazzo alle spalle»).
Mica è un caso che la prima canzone che ascoltiamo sia Just an Illusion degli Imagination e che l’unica realtà dei giovani protagonisti sia quella del sogno («Dreams are my reality») ovvero dell’amore adolescenziale (la scena di Il tempo delle mele è citata alla lettera). E quel soprannome, Sopravvissù, Muccino lo usa come un promemoria: ci ricorda costantemente chi sono questi personaggi, da dove vengono, a quale stagione sono sopravvissuti (gli anni di piombo) in quale vuoto ideologico sono cresciuti e maturati. 

E non è un caso che questo film, che cita e celebra (sotterra?) tanti classici nostrani (si pensi, solo come esempio, al filo narrativo del personaggio di Santamaria che evoca quello di Una vita difficile di Dino Risi), lo faccia sulla base di C’eravamo tanto amati di Scola, esso stesso un film citazionista che guardava in retrospettiva al grande cinema italiano, al modo in cui era stato assorbito, vissuto, studiato (il personaggio interpretato da Stefano Satta Flores) e riprocessato nell’immaginario del nostro Paese: da De Sica a Fellini (vi apparivano entrambi). È la summa di un metodo, ché quella del regista romano è da sempre un’opera che intercetta e filtra a suo modo le matrici della nostra tradizione in celluloide.
Su questa base l’autore stende un nuovo romanzo popolare, una  Meglio (peggio?) gioventù, meno scandita e puntuale nel riflesso con le vicende del Belpaese, molto più concentrata sul dato privato eppure, tra le righe, in trasparenza, pronta a essere riletta in chiave di riflessione storica. Il tempo cambia le persone, rende digeribili cose che sembravano inaccettabili, fornisce nuove illusioni (illusion, illusion, illusion). Ci attraversa, non lo cavalchiamo mai. Il tempo, che è il vero protagonista, si presenta come meccanismo di corsi e ricorsi storici: così il film finisce riproponendo un trio, quello dei figli dei protagonisti, e una coppia che si riforma (la scena che, dal teatro parte verso il flashback-chiave - quello della morte del pappagallino - nel quale passato e presente si ricongiungono: chapeau).  Il solito dramma mucciniano che si apre al sorriso e al pianto, perché il regista non si vergogna di rivolgersi direttamente al pubblico, cercandone l’immedesimazione (come non ritrovarla nella straziante coscienza del tempo che si/ci brucia? Banale, certo. Vero, pure).
Come sempre il dipanarsi della narrazione è implacabile: tutto è chiaro, leggibile, niente è necessario sottolineare, ribadire. La modalità scelta è quella di C’eravamo tanto amati: ognuno dei protagonisti dicendo di sé, sguardo in camera, offre il suo punto di vista sulle vicende. Da sempre Muccino procede con una precisa prassi di racconto: da Ecco fatto, in cui la lavanderia costituiva la cornice nella quale la vicenda veniva evocata e commentata (in odor di Chaucer o Boccaccio), alla voce over del protagonista in L’ultimo bacio, fino al narratore onnisciente di Ricordati di me. È l’aderenza a questi modelli, di chiara derivazione romanzesca, ciò che tiene legato lo spettatore al film, ed è questo il segreto di questi racconti avvincenti, che non conoscono pause, che non annoiano neanche lo spettatore più refrattario e infastidito.
Poi ci chiediamo perché gli americani abbiamo chiamato Muccino a Hollywood... 

Dentro il film, poi, la poetica che conosciamo: l’urgenza di vivere tutto, la necessità di non privarsi di nulla, l’(auto)indulgenza fallocentrica, gli scontri tra concezioni esistenziali, la voglia di capirsi, la sostanziale impossibilità di farlo di fronte a un destino che porta i percorsi di vita verso direzioni opposte, gli ideali che si tengono fermi o che si tradiscono e i legami che resistono comunque. E l'omaggio implicito al cinema italiano - un vero puzzle di riferimenti, come si diceva - che poggia sul riferimento-base del film di Scola, modello puntualmente preso in considerazione e puntualmente disatteso (nel senso che anche le mancate coincidenze sembrano divaricazioni cercate solo per indurre un confronto col modello). E tutto con la visceralità che è la cifra dell’autore, quella che si traduce in un gesto registico insieme virtuoso e personale: perché i suoi pianisequenza, al di là dell’urgenza espressiva che sottintendono (non perdere l’enfasi della recitazione) sono sempre perfettamente integrati, mai esibizionistici.
Certo, poi c’è il punctum dolens: piacciono questi film. Fanno soldi. E come se non bastasse Muccino non si preoccupa minimamente di travestire la sua prospettiva borghese. Non la ammanta di maledettismo. Non finge, non ce la fa proprio. Mannaggia.