TRAMA
Gallia, al tempo dei druidi. Il pastore Céladon ama, riamato, la pastorella Astrea, finché ella lo scaccia ritenendolo, a torto, infedele. Solo dopo molte vicissitudini riusciranno a ritrovarsi.
RECENSIONI
La parola è ancora una volta, dopo il sottovalutato Triple agent, al centro di un’opera di Rohmer: al di là della puntigliosa ricostruzione di un’Arcadia “impossibile” (come indica la didascalia iniziale, un trionfo d'ironia filologica), oltre la successione di quadri deliziosamente inamidati che pescano a piene mani da Rubens (“incastonato” in una delle scene chiave), Lorrain, Watteau e Fragonard, la rilettura dell’Astrée di D’Urfé è il (pre)testo per mettere in scena un gioco sul potere del linguaggio, un Racconto morale che approda non lontano dai lidi raggiunti dalle più recenti prove di Manoel de Oliveira. Astrea, Céladon, gli altri pastori, le ninfe e persino il druido non sono personaggi in carne e ossa ma argomentazioni bipedi, personificazione di sentimenti e stati d’animo (la Gelosia, il Rimorso, l’Incostanza, la Fedeltà) che rimandano a una sola divinità, l’Amore. È l’eloquente perfidia di un innamorato deluso ad armare lo sdegno di Astrea, indotta a vedere nella suprema prova d’amore di Céladon nient’altro che un fatale insulto alla loro passione. Ma se la parola parlata inganna e acceca, quella scritta attesta e risana, e anche le menzogne orali sono destinate a liquefarsi affinché risorga quella verità creatrice (Rivivi, Céladon!) che è attributo dell’unico Dio trionfante e risanato di questo Olimpo astratto, l’Amore stesso.
Melodramma pastorale girato in esterni e interni “contaminati” dai meravigliosamente anacronistici costumi di Pierre-Jean Larroque e Pu-Laï, cullato da una voce over e da didascalie sapientemente ridondanti e punteggiato da intermezzi musicali rigorosamente intradiegetici, Gli amori di Astrea e Céladon non è il film scabro e inamidato che era lecito temere, ma un’elegia cerimoniale (e cerimoniosa) che traduce gli arabeschi verbali in solo apparentemente placidi piani sequenza (il dialogo fra Céladon e Galatea nel labirinto) e avvolge la sensualità in una rete di artifici e travestimenti tale da potenziarne l’effetto [l’agguato alla bella addormentata e, soprattutto, la sequenza finale, trionfo di erotismo (s)velato]. Un piccolo film che non aggiunge nulla alla gloria del suo autore, ma che ne reca l’inconfondibile impronta.
