Commedia, Recensione

GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA

TRAMA

Bologna, 1954. Taddeo è un ragazzo di 18 anni. Il suo sogno è quello di frequentare il mitico Bar Margherita che si trova proprio sotto i portici davanti alla sua abitazione. Con uno stratagemma, il giovane diventa l’autista personale di Al, l’uomo più carismatico e misterioso del quartiere. Grazie alla sua protezione, Taddeo riuscirà a essere testimone di un campionario di varia umanità.

RECENSIONI

Da sempre affettuoso cantore della mediocrità dell'uomo che non cambia il corso della Storia, Pupi Avati torna agli anni della sua giovinezza in quel di Bologna. Per l'ennesima volta, in molti diranno, storcendo il naso con giustificabile preconcetto (alcune sue incursioni nel passato non sono certo memorabili, da Dichiarazioni d'amore a Il cuore altrove). Questa volta, però, non cerca la morale a tutti i costi, non ha tesi da suffragare, non si rifugia nel bel tempo che fu limitandosi a uno sterile piangersi addosso, ma racconta una storia. Anzi, tante storie. Quelle dei frequentatori di un bar bolognese negli anni in cui si tirava il fiato dopo la fine della guerra e il boom economico era alle porte. Una sorta di incrocio tra I vitelloni di Fellini e gli Amici miei di Monicelli, quasi una trasposizione del romanzo "Bar Sport" di Stefano Benni. Parlare di stereotipo, visto il soggetto, è quanto mai fuori luogo. Avati racconta proprio il tipico frequentatore del bar e quindi la macchietta è una strada obbligata, cavalcata però con una misura che limita gli eccessi a beneficio della verosimiglianza. A evitare che le figure descritte diventino inerti statuine di un nostalgico Presepe ci pensano una inaspettata leggerezza dei toni e una dose di cinismo che sbilancia piacevolmente il virato seppia dei ricordi verso il nero, da sempre nelle corde del regista bolognese. La sceneggiatura accarezza superficialmente i tanti protagonisti soffermandosi su due scherzi, piuttosto crudeli, giocati ai danni di due del gruppo, e sul passaggio dall'adolescenza all'età adulta del giovane narratore, evidente alter ego di Avati (l'ottimo Pierpaolo Zizzi, in perfetta sintonia con il personaggio). Equilibrato anche il cast di nomi noti, in cui si distinguono un inedito Luigi Lo Cascio in versione comica e un Gianni Cavina laido al punto giusto, e non solo di canzoni d'epoca l'interessante collante musicale di Lucio Dalla. Dal punto di vista cinematografico non tutto è a fuoco (l'insistente voce narrante, alcune scorciatoie narrative, l'enfatico ralenti finale, l'assenza di approfondimenti) e colpisce l'estraneità del gruppo alla guerra da poco conclusa o alla situazione politica del paese (molto spesso al centro delle discussioni da bar), ma il film si lascia apprezzare più che altro per la sincerità di un sentire molto personale che riesce a uscire dall'autobiografia per farsi voce universale. Molto discutibile, invece, la scelta, pare dettata da motivi economici (alcune Film Commission funzionano, altre meno), di non girare a Bologna (riconoscibile solo in alcuni brevi e brutti inserti di raccordo, tipo fiction televisiva) ma di ricostruire gli esterni del Bar Margherita a Cuneo.