TRAMA
Un regista non più vedente è alla ricerca di un finale e di un amore perduti.
RECENSIONI
Per la prima volta da diversi anni a questa parte, un film di Almodovar vive illuminato dal solo riflesso della propria storia e dei propri referenti. Se altrove il dispositivo barocco (film nel film, scrittura nella scrittura, maschere dietro le maschere e intarsi temporali) alimentava un discorso stratificato e toccante sulla memoria e sul senso dell'agire cinematografico, in Los abrazos rotos gira leggermente a vuoto, non produce ma unicamente rinvia. Il regista mette in scena la propria crisi d'ispirazione ed il proprio desiderio di tornare alla commedia, ricicla figure e soluzioni già viste in passato (il film è una sorta di centone almodovariano, algido come un dizionario di retorica), senza tuttavia riuscire ad imbastire un melodramma che sia anche passionale, come risucchiato dalla spirale dell'abnorme ipertesto da lui forgiato. La vicenda amorosa, tra noir della o delle vendette (del marito tradito, del figlio tiranneggiato) e mélo estremo, è troppo cerebrale, il personaggio di Lena è irrisolto e « fuori parte » (aspirante attrice di commedia costretta a recitare un dramma passionale nella vita), quello duplice e prometeico di Mateo Blanco/Harry Cane risaputo (la cecità come morte simbolica del creatore di immagini) e mai vibrante, mentre Judith Garcia sarebbe toccante col suo amore ostinato se non fosse cosi' loquace. La loro unione non produce effetti, se non quello di aggiungere ulteriore materiale al personale repertorio di immagini e figure cinematografiche del passato attualizzate, da sempre per amplificare il pathos, qui, ahinoi, per colmare, con la loro forza, un allarmante vuoto di emozione nel racconto di primo livello (Viaggio in Italia come prefigurazione della tragedia). La forma ammaliante e sovente seducente, la felicità di certe soluzioni e la potenza di certe immagini (il regista cieco che avanza a tentoni all'ingresso dell'ospedale) non valgono un secondo della freschezza, benché derivativa (Donne sull'orlo di una crisi di nervi) dell'ultimo frammento di fiction nella fiction : una libertà ritrovata ed una rivelazione che arrivano troppo tardi, dopo 110 minuti di esangue esercizio di stile.
Una donna di rosso vestita cade dalle scale, spinta giù in un impeto di rabbia dal marito che non vuole essere abbandonato. A questo topos melodrammatico segue, dopo la corsa in ospedale, una sequenza di lastre diagnostiche. Scheletro di un amore, ossa contuse dal desiderio. Fitto di omaggi al cinema più amato (e di riferimenti al proprio cinema), Gli abbracci spezzati di Pedro Almodovar è la radiografia di una passione, quella cinefila, che stringe a sé la vita come la morte.
Malinconico labirinto di vendette e agnizioni, film nel film (e film sul film nel film), andirivieni temporali, slittamenti d'identità, commistione di sostanza mélo e forme noir (o viceversa), rielaborazioni nel segno della commedia. Non è certo una novità (e perché mai dovrebbe esserla?) l'ultima opera di Almodovar ma è probabilmente una novità il suo sguardo quasi clinico su un materiale palpitante, quella 'freddezza' che è stata (non del tutto a torto) la principale causa di un'accoglienza critica non molto entusiasta. Gli abbracci spezzati è d'altronde il film che più si avvicina a un'altra sua opera (ingiustamente) poco amata e sottovalutata, La mala educación, film cupo, amaro, affatto conciliante. In entrambi i titoli più che in altri della filmografia almodovariana il cinema, sia nella sua fruizione che nella sua creazione, è una macchina dolorosa, un magnifico meccanismo rivelatore che svela le ferite nascoste, dà voce e forma ai traumi silenti, mette il dito nella piaga. Perfino il genere della commedia (alla quale forse Almodovar agogna ritornare) è qui rappresentato esplicitamente come la sorridente digestione di grumi e grumi di amarezze: la fluida brillantezza della sequenza del prefinale tratta dal film ritrovato 'Chicas y maletas' (ricalco dell'epocale Donne sull'orlo di una crisi di nervi) giunge al termine di un percorso tortuoso e sofferto.
La cecità di Mateo Blanco/Harry Caine lungi dall'esaurirsi nella troppo ovvia metafora della perdita d'ispirazione/oggetto d'amore avanza l'ipotesi di un cinema come linguaggio Braille (le mani di Mateo che leggono la sgranatura dell'immagine video di un ultimo bacio), di film come esperienza letteralmente tattile, sollecitazione multisensoriale che può perfino fare a meno dellocchio umano ('I film vanno terminati comunque, anche da ciechi') tanto è strettamente, necessariamente anzi, legato alla vita e alla conoscenza di sé e degli altri. Mateo smette di guardare ma non di 'vedere', continua a lavorare nel cinema scrivendo sceneggiature, non rinuncia alla vita né all'amore (l'iniziale scena di seduzione). La cinefilia oltre che mera passione è per Almodovar uno strumento di sopravvivenza.
L'intensità del discorso porta però stavolta Almodovar ad essere coinvolto più dalle idee (e dalla loro esposizione) che dalle dinamiche narrative. La 'freddezza' colpevole degli Abbracci spezzati deriva probabilmente da una verbosità un po' anestetizzante (che prende il sopravvento nella seconda parte), da un citazionismo che a volte scivola nella sottolineatura ridondante (risaputo e superfluo l'ennesimo richiamo a L'occhio che uccide di Michael Powell, didascalico l'elenco dei dvd presenti in casa di Mateo), da una costruzione generalmente opaca dei personaggi, quasi tutti poco appassionanti e dispersi nelle volute del plot (si pensi, ad esempio, a com'è buttata via una figura potenzialmente corrosiva come quella del livoroso 'figlio con la macchina da presa' Ernesto jr dall'eloquente nome d'arte di Ray X mentre un'ottima Penelope Cruz riesce a donare a Lena, musa multiforme, figlia devota e donna sfuggente, la giusta dose di mistero e fragilità). Paradossalmente, in un film il cui protagonista/alter ego di Almodovar abbandona il mestiere di regista per fare lo sceneggiatore, è proprio la sceneggiatura l'elemento debole, carente tra l'altro di una qualità squisitamente almodovariana come la bruciante secchezza di ritmo (quella che per esempio in uno splendido film al limite come Carne tremula prosciugava il mélo rendendolo più tagliente).
Gli abbracci spezzati vive allora di ipnotiche geometrie compositive (una bobina che gira dissolvendosi in una tromba di scale), singole folgorazioni cromatiche (il suolo lunare della vulcanica isola di Lanzarote, le tele pop costellate di armi appese alle pareti della casa di Ernesto), splendidi momenti isolati che se non riescono a coagularsi in una narrazione coesa riescono comunque a suggerire tutto un universo espressivo ed esistenziale (su tutti la bellissima sequenza dell'addio doppiato in diretta, abbraccio lacerante tra vita e cinema). Saggio di cinema manierista dunque, ma di un manierismo denso, dolente e imperfettamente vitale. Gli esercizi di stile siano lasciati a chi come Almodovar ha (ancora) stile da vendere.
« Abbiamo tanto tempo, figlia mia », diceva più o meno Irene a Raimunda nell'ultima scena di Volver, quasi come un annuncio del tempo ritrovato che chiudeva quell'avventura di fantasmi e riapparizioni; tre anni dopo Los abrazos rotos torna a ripensare il dramma del tempo, che è quello della morte o, più in generale, della frattura insita nelle cose, e riapre la ricerca partendo dal ni-ente: il buio. Gli occhi di Harry Caine, uno sceneggiatore che si trascina avanti spezzato da sé stesso e dal mondo che gli sta attorno, sono spenti e intrisi di dolore, come se non valesse più la pena guardare: la sua cecità eccede la dimensione fisica per farsi motivo rivelatore dell'intimo distacco dalle cose. Almodovar, aprendosi come non aveva mai fatto prima, ci racconta con delicatezza infinta il dolore di quelli che « restano » e si abbandonano al naufragio della realtà, e la distanza non superabile del passato, allo stesso tempo intimo e cinematografico per il protagonista e, ovviamente, metacinematografico per il regista se Chicas y maletas rimanda alla filmografia almodovariana degli anni Ottanta (e in particolare a Donne sull'orlo di una crisi di nervi: si vedano il gazpacho avvelenato, gli oggetti lanciati dalla finestra, il sottofondo poliziesco e la stessa struttura architettonica dell'appartamento con salone e ampio terrazzo). Quel passato che, come in Volver, anche qui all'improvviso « vuelve a enfrentarse con la vida » e lo fa nella figura di Ernesto Martel hijo che compare d'un tratto dietro lo spioncino; anche solo la sua fisicità scialba, confrontata con quella scintillante di Carmen Maura che svolgeva una funzione narrativa analoga, mette in luce tutta la distanza dal film precedente: se lì l'incontro con il passato si inseriva nella vita appassionata di Raimunda attivando un gioco di specchi e ritorni che ne permetteva il recupero in una storia tutta del presente, qui dà l'avvio a una triste elegia che nella forma del flashback, gestito con somma raffinatezza rivelando solo poco alla volta il sostrato melò della vicenda, relega all'oggi i pochi ultimi sviluppi e non fa che mettere in risalto la distanza e l'impossibilita a rimettere insieme il tutto (le mani sui brandelli di fotografie, la ridicola vendetta postuma di Ernesto) e allo stesso tempo l'inesauribile voluttà di provare a farlo: ancora le mani e ancora i brandelli, quelli del film perduto e fatto a pezzi che si prova (solo quello, Los abrazos rotos non ci dice altro) a ritrovare.
Lo stile barocco di Almodovar, eccedente in tutto (il moltiplicarsi dei piani narrativi, sia in senso temporale che metalinguistico, e si veda la stupenda sequenza del doppiaggio, la ricerca del meraviglioso in ogni inquadratura, i movimenti di macchina ossessivi, quell'andare avanti e indietro senza posa, l'enorme mole di film e di generi a cui si richiama di continuo), poche volte è stato così dolente, dunque così appropriato e privo di sbavature orchestrando un'incredibile macchina cinematografica che riproduce la vita attraverso un caleidoscopio e ne denuncia la totale assenza di significato: perfino il passato che ritorna ha le tinte scure degli interni anni Novanta e lo squallore dell'arrivismo al tempo del boom (esemplare è la sequenza in cui Magdalena in tubino nero si ricopre di catene d'oro nel ricco appartamento di Ernesto padre) oppure al limite la malinconia dei paesaggi ampi e desolati di Lanzarote; le esplosioni di colori sono lasciate all'arte: solo su questo piano negli Abrazos rotos è possibile la redenzione (il sorriso radioso di Magdalena quando si presenta a Mateo) e il tempo davvero ritorna. Non è più l'ora dei fantasmi.
Straordinari i tre protagonisti (Homar, Cruz, Portillo) come la comparsa della Dueñas.
Per Almodovar il suo passato non è riproducibile in alcun modo: non ci sono vestigia da restaurare, né il furbo riciclo del tempo che fu sotto subdola forma. Di questo mi pare trattino gli ultimi tre film e questo Gli abbracci spezzati, in particolare: del cinema di un grande regista che non può più esprimersi col linguaggio del passato, e che pure del passato vuol parlare, ma solo per riflettere sull'impossibilità di resuscitarlo (cfr. Volver). E' questo l'unico discorso possibile (lo seziona magnificamente, per quanto in tono deluso, Manuel Billi), per un autore che sente di aver detto già tutto a riguardo e che vede quel mondo accartocciarsi. Lo spagnolo lo enuncia affidandosi a una meccanica necessaria, spogliando l'opera della lucente patina, di quella leggerezza che non può sussistere più, per spiegarsi in tale mancanza, affidandosi ancora ai classici, ma solo per scortare la sua riflessione sulla doppia impossibilità da un lato di sfuggire a se stesso, dall'altro di riproporre una versione di sé che ha ormai da tempo superato (Donne sull'orlo di una crisi di nervi ricostruito in laboratorio - a Pedro non lo sfiora neanche l'idea di costruire un plot inedito per il suo alter ego Mateo/Harry: semplicemente non può, non sa più farlo -).
Puoi essere in crisi e decidere di condannare ad harakiri il tuo cinema (Kitano) oppure rifletterci su senza ribellismi autodistruttivi, mettendo in evidenza tutti i limiti umani del tuo essere creativo. Almodovar fa questo con tutta la sottigliezza che lo contraddistingue, non ricorrendo ad espedienti esteriori, ma articolando il suo discorso attraverso i meccanismi interni al film: la sua tesi non è sovrastrutturale, ma è parte integrante del quadro, esattamente come le innumerevoli citazioni che lo punteggiano [1]. Per questo Gli abbracci spezzati si afferma come apparato teorico che si autocontempla, privo di climax, ma che sorregge un discorso che si fa eminentemente filmico, quanto lo è, ad esempio, la volontà di trasformare Penelope Cruz nell'Icona, sintesi perfetta di quelle del passato: in un'epoca che fabbrica e coltiva i divi fuori dal contesto letterale dei film, Almodovar tiene a ricostruire la mitologia cinematografica dentro di esso e dentro di esso opera ad ogni livello, poiché tutti i piani che il cinema di questo regista ha contemplato e contempla si consumano e leggono sempre all'interno del testo.
Lo dicevo già a proposito di Volver: questo di Pedro è il tempo della rimeditazione, chiedere qualcosa di diverso ai suoi film è assurdo (è sempre assurdo chiedere qualcosa ai film, invero), poiché è in questa metariflessione che risiede oggi l'autenticità del suo commovente girare.
[1]
Oltre a quelle esplicite e alle altre già menzionate vanno ricordate almeno le citazioni a Bella di giorno (la scena al telefono con la maitresse: scopriamo che il nome con cui Lena esercita la prostituzione è Severine, quello del personaggio interpretato dalla Deneuve nel film di Bunuel; l'apparizione della Cruz sulla sedia a rotelle con gli occhiali scuri si richiama all'immagine di Jean Sorel nel finale dello stesso), Il bacio della morte di Hathaway (la scena dell'incidente), Quarto potere di Welles (la scena in cui Martel, a tavola, chiede a Lena perché si ostina a voler fare l'attrice); almeno due sono i riferimenti hitchcockiani (Notorius: la scena in cui Martel porta in braccio Lena e la adagia sul sedile posteriore della macchina, ma in generale la tresca tra Lena e Mateo alle spalle del magnate suggerisce la situazione di casa Sebastian; Rear window: la scena in cui - Nicholas? - Ray X spia col cannocchiale i due amanti le cui ombre si intravedono da una finestra che dà su un cortile; anche la gamba ingessata della Cruz potrebbe essere un riferimento a quel film). La caduta dalle scale è un luogo tipicamente hollywoodiano (per tutti: Via col vento di Fleming); la scelta dello pseudonimo di Mateo (Harry Caine) può riferirsi tanto al Cain de Il postino suona sempre due volte sia al Kane di Quarto potere (Harry Caine ovvero hurricane, come il film di John Ford con Dorohy Lamour?). Bellucci suggerisce inoltre la Bette Davis di Tramonto come riferimento della scena in cui Mateo, cieco, accarezza i fiori. La presenza della Molina, in un'apparizione brevissima, può essere considerato un altro riferimento a Bunuel.
L’evoluzione stilistica di Pedro Almodóvar: dagli esordi surreali, isterici, grotteschi e sanguigni, è approdato, in zona Tutto Su Mia Madre, ad un cinema più sobrio che, se votato alla commedia (Volver), funziona per innesti colorati in trame appassionate e lineari; se votato al dramma (Parla con Lei), riesce nel momento in cui il barocchismo esplode nella simbologia della speranza, ad un passo dal mélo doloroso, intenso, alla ricerca continua di pathos; fallisce (La Mala Educación) se diventa mero esercizio autobiografico, “narrativo”, scontato. Qui siamo a metà fra le ultime due opere citate: se l’espediente del regista cieco sta diventando l’emblema (vedi Woody Allen) dell’autore che non sa più cosa dire e si dà alla metacinematografia, a mancare è, soprattutto, la migliore qualità del cinema del regista, la passione (se si esclude la scena in cui Harry Caine accarezza lo schermo dove è proiettato il suo ultimo bacio all’amata). Tutto rischia di ridursi a gioco di cinefilia con paralleli (due storie: al presente e in flashback) che si incontrano nel “giallo”, epidermicamente piacevole nella messinscena, fra colori accesi e cura maniacale per le scenografie, ma con drammaturgia accademica, poco difendibile quando, oltretutto, diventa poco plausibile (vedi la decisione del personaggio di Penélope Cruz di restare con l’odiato facoltoso per salvare il film o quella del protagonista che, per quattordici anni, non si cura di sapere che fine abbia fatto il suo ultimo lavoro). Per fortuna, ci sono risvolti potenzialmente intriganti, colti o non colti che siano da un autore che avrebbe ricomposto l’abbraccio con i suoi estimatori, se avesse girato solo il film nel film (“Ragazze e valigie” con Penélope Cruz stile Audrey Hepburn, commedia alla Donne sull'Orlo di una Crisi di Nervi, il cui spin-off La concejala antropófaga è rinvenibile in DVD). Il titolo omaggia anche Viaggio in Italia di Rossellini.