Noir, Recensione

GIUNGLA D’ASFALTO

Titolo OriginaleThe Asphalt Jungle
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1950
Genere
Durata112'
Tratto da1950

TRAMA

Un elegante ladro di gioielli tedesco appena uscito dal carcere coinvolge una serie di complici per un “colpo grosso” in una gioielleria studiato scientificamente in cella. L’evolversi delle cose avrà esiti ben diversi da quelli attesi dalla combriccola di malviventi.

RECENSIONI

Capita spesso, anche ai cosiddetti giovani critici, con buona pace di/del Morandini, sempre più dizionario di se stesso, di interrogarsi sul senso da attribuire al termine capolavoro speso nei confronti di autentiche gemme di cinematografia quali Il falcone maltese, Il tesoro della Sierra Madre e Giungla d’asfalto. E’ sufficiente una breve ma puntuale riflessione su alcuni elementi del cinema hustoniano per dirimere qualsiasi questione in merito. Un cinema che nasce già grande poiché mostra al suo sorgere una notevole robustezza narrativa (Huston è sceneggiatore alla Warner) unita ad un’asciuttezza formale degna dei più grandi cineasti con i quali Huston si trova, per generi e per tematiche, in qualche modo a confrontarsi quali Hawks, Le Roy, Wyler, Walsh etc.; una sobrietà stilistica che per altri versi non esita ad esibire piccoli, straordinari momenti di esuberanza come lo sguardo deformato dell’oblò della Genoa Maru dalla quale guarda Humphrey Bogart in Agguato ai tropici, o la “faticosissima” sequenza della scazzottata iniziale di Bogey e Tim Holt con il datore di lavoro imbroglione in Il tesoro della Sierra Madre e la scena del ballo sfrenato della ragazza dentro il bar davanti agli occhi abbacinati e rassegnati di Sam Jaffe in Giungla d’asfalto. Tutti infinitesimi tasselli che contribuiranno a creare quel grande mosaico che Huston comporrà nel 1967 con Riflessi in un occhio d’oro, pellicola che ribalterà sublimemente la secchezza di uno stile oramai consolidato. E proprio Giungla d’asfalto, con quell’inizio così obliquo, così “trasversale” che già subito ci introduce in un mondo dove ogni principio di linearità è bandito, e quel finale così straordinariamente allucinato, dolente e sognante al tempo stesso, il tutto immerso in un bianco e nero, fotografato da Harold Rosson, oscuro, lercio, bellissimo, mai così connotativamente chiaroscurale, con piccoli movimenti di macchina ma improvvisi, quasi furtivi, come furtiva è la rapina in gioelleria, sorpresi da repentini primissimi piani di elevata efficacia drammatica come quello memorabile e disperante di Alonzo D. Emmerich (Louis Calhern) in cui l’improvvisato gangster pronuncia la frase che suggella quella filosofia della sconfitta sottesa da tanto cinema hustoniano: “Il delitto non è che uno degli aspetti sinistri della lotta per la vita”. Una pellicola davvero di magistrale levatura se si considera soprattutto il fatto che Huston, co-inventore del genere noir di cui contribuisce a codificarne i canoni espressivi, si diverte a stravolgerne le regole non in virtù di una futile volontà di divertissement ma in funzione di un parallelismo micro-macrocosmico in cui non ci sono protagonisti veri e propri ma dove ognuno si rende figura essenziale per raccontare la condizione (dis)umana di qualsiasi realtà metropolitana, una giungla d’asfalto in cui la storia della miseria di uno è la tragica storia di tutti, senza manicheismi e soprattutto senza ipocrisie morali di sorta.