TRAMA
Giulia nella Roma del Covid si ritrova a vagare senza meta e senza un posto nel mondo…
RECENSIONI
GIULIA E IL VIRUS
Giulia di Ciro De Caro è il primo, vero film italiano sul post-Covid. La protagonista è la Giulia di Rosa Palasciano: non sappiamo esattamente da dove proviene, cosa le è successo di preciso e perché si trova così oggi. Certo, abbiamo degli indizi: la giovane è strana, weird, il suo equilibrio mentale sembra vacillare a seguito della fine di un rapporto. Ma, ecco l’implicito, anche il virus ha influito con il lockdown imposto, la drastica riduzione della vita sociale, il chiudersi nel guscio di casa: insomma l’epidemia va a erodere le menti già labili rischiando di farle precipitare. È la premessa di una tale protagonista che opera una rimozione, non accetta la rottura di un amore, si presenta rocambolescamente a casa dell’ex come se niente fosse: è la generazione dei trenta e qualcosa, coloro che non trovano un posto, coltivano il miraggio dei figli - forse sincero, forse per dettato sociale, perché si fa così - ma non hanno orizzonte né lavoro stabile. Sono solo lievemente più giovani della coppia in frantumi tematizzata in Una relazione di Stefano Sardo. E tutto questo acuito dal Covid: non è chiaro se la pandemia sia metafora dello smarrimento esistenziale o viceversa, il punto è che le due spinte si intrecciano a vicenda. Il risultato è Giulia: sperduta, quasi borderline, senza un luogo fisico da abitare (raccoglie le sue cose in una busta di plastica come una clochard), è una giovane donna che forse sta impazzendo.
Il grimaldello dell’intreccio arriva nell’incontro con due personaggi, che a loro volta rappresentano due tipi umani nell’Italia contemporanea: uno è il Sergio di Valerio Di Benedetto, giovane impacciato in cerca di stabilità che si vuole fidanzare a ogni costo, e infatti si innamora di Giulia troppo presto, in un colpo di fulmine esagerato e insistito, che diviene iperbole di un’era della velocità, anche nei rapporti umani. L’altro è il coinquilino Fabrizio Ciavoni (uguale nella finzione), a occupare il ruolo del freak che sembra solo pittoresco ma in realtà diventa rivelatore.
De Caro, come in Spaghetti Story, prende sprazzi di romanità e costruisce un minimalismo che guarda all’universale: singole, piccole storie che aprono i loro raggi e prendono questioni di oggi, meno banali di quanto sembra. Non massimi sistemi, però, bensì stati d’animo che si mimetizzano dentro il racconto e nelle sue pieghe vanno ricercati. Per farlo sceglie la commedia grottesca: le triangolazioni tra i caratteri parlano di un’umanità che ha perso la bussola, se mai l’ha avuta, e il sospetto squilibrio sfocia in situazioni tanto terribili quanto esilaranti, come Giulia che porta le merendine per dessert nel pranzo con l’ex ragazzo. A contorno troviamo una fauna che combatte l’incertezza pandemica, siano essi gli anziani nella loro tragicomica ricerca di compagnia, sia il critico narcisista che si lancia in un geniale monologo senza essere capito (guardarsi allo specchio è un antidoto al virus - basta scorrere i social). La figura della vicina di casa, che non sa rialzare la testa e sceglie la soluzione definitiva, incarna la deriva più tragica. Perché il virus ha allargato i nostri vuoti, ma i buchi c’erano già prima.
Su tutto la nuova solitudine: ecco che il girovagare dei tre in luoghi riconoscibili (la spiaggia di Fregene) avanza tra Moretti e Cassavetes, è un movimento centrifugo tra angusti interni coabitati e mesti pomeriggi al mare, tra risate e dolori, all’insegna di una nuova consapevolezza obbligata in via di maturazione. Come ricostruire se stessi? Come uscire dal tempo del Covid? L’agnizione viene affidata al personaggio di Ciavoni nel dialogo decisivo con Giulia: «Puoi anche stare sola, non devi per forza dipendere da qualcuno». Un’ipotesi di autonomia, proprio dalla figura più sbilanciata, una via possibile - non obbligatoria - per spaccare la paralisi attuale e provare a camminare, non in coppia. Per questo non importa particolarmente, in chiusura, se Giulia sia viva o morta, se scompare in acqua o nel fuori campo: perché l’affresco post-pandemico è compiuto, una fragile rotta è stata tracciata.