Recensione, Western

GIÙ LA TESTA

NazioneItalia
Anno Produzione1972
Genere
Durata156'

TRAMA

L’irlandese Sean Mallory convince il bandito messicano Juan Miranda ad associarsi con lui per rapinare una banca ma gli nasconde il suo disegno rivoluzionario. Dopo aver perduto l’intera famiglia durante una rappresaglia governativa quest’ultimo si convertirà alla causa zapatista.

RECENSIONI

Un lugubre spettro di morte aleggia su tutto il cinema di Sergio Leone. Se C’era una volta il West aveva raccontato il declino attraverso i toni da epicedio funebre del mito della frontiera, Giù la testa celebra in maniera , se possibile, più definitiva la fine di un’era. Dopo la messa a morte del West l’ “empio” cineasta, con Giù la testa, getta il suo implacabile sguardo su un altro mito palingenetico: quello della rivoluzione.
In quello che rimane senza ombra di dubbio il film meno riuscito, ma forse anche meno volutamente compiuto di Leone, per la tematizzazione alquanto esile e farragginosa dell’argomento politico, per l’incedere paratattico se non ellittico della narrazione, probabilmente è proprio questo registro stilistico frammentario a costituirne l’elemento non solo più interessante ma anche quello più funzionale ai fini del discorso filmico. Sono le stesse parole di Sean Mallory a confermarcelo: “Dove c’è rivoluzione c’è confusione”. E l’assunto può tranquillamente essere ribaltato. Si citano numi tutelari del pensiero rivoluzionario quali Marx, Mao e Bakunin ma Leone sa benissimo prendere le distanze, in quella che sembra la pellicola più fortemente caratterizzata dal passaggio dal mito alla storia, dalla Grande Storia propugnando un pragmatismo sociale, populista, una rivoluzione vista più con la marginalità degli occhi di Juan Miranda e dei suoi peones che quella di Villa e Zapata, o dell’idealismo, anche un po’ disincantato ma comunque fuori tempo massimo di Sean Mallory.
Giù la testa è indubbiamente anche il film meno curato dal punto di vista prettamente tecnico; quello in cui Leone riesce a sfruttare maggiormente l’uso dei totali, atti a garantire tutta l’energia veicolata dalla coralità dell’azione la quale riesce felicemente a connotare, anche grazie a riferimenti iconografici precisi quali Hales e Goya, il contesto rivoluzionario. E’ il film in cui dunque Leone non ha bisogno della dialettica dei campi/controcampi per accentuare il suo ricorrente discorso esistenziale sulle solitudini individualiste e meschine della trilogia del dollaro, e per tale motivo inaugura anche un nuovo orizzonte estetico ampiamente approfondito in quello che rimane la sua opera più definita e definitiva, il suo enorme, onnicomprensivo, testamento estetico: C’era una volta in America.