TRAMA
Josh e Cornelia Srebnick, una coppia di quarantenni newyorkesi, impegnati in campo artistico, conoscendo la giovane coppia Jamie e Darby aprono uno spiraglio sulla loro giovinezza, guardano ciò che hanno ottenuto e quello che desideravano avere.
RECENSIONI
Josh e Cornelia, la coppia di quarantenni protagonista del film, si muove sul delicato crinale di una consapevolezza addomesticata che, invece di condurre a una sana autocritica, tende a rassicurarli: lo sguardo dei due è rivolto a un avvenire programmaticamente mitizzato, destinato a rimanere chimerico e irrealizzato (meglio: sempre da realizzare); per questo il secondo documentario di Josh non viene mai concluso: è il suo rifugio, il suo futuro, ovvero il suo perenne presente carico di aspettative. L’opera seconda è il pretesto per non prendere decisioni e vivere in uno stallo dissimulato (ma, ribadisco, cosciente: è Josh stesso che cita la frase di John Lennon «la vita è ciò che ti succede mentre fai altri progetti»). Il passato, intanto, è stato sapientemente rimosso, per evitare il rimpianto di una giovinezza che si percepirebbe sprecata.
Il confronto con Jamie e Darby, la coppia più giovane (come quello con la coppia di amici coetanei che, avendo avuto un figlio, ha raggiunto una pacificazione con l’avvenire), viene vissuto all’ombra di tale consapevolezza pilotata: dietro il ritornello autoconsolatorio («Ciò che conta è avere la libertà. Ciò che ne facciamo non ha importanza» cui fanno eco i primi versi di Golden Years di David Bowie, Non voglio sentirti dire che la vita non ti sta portando da nessuna parte) c’è l’intento di ottundere una sensazione che si teme fondata: quella del fallimento umano e professionale. È sottile il modo in cui Baumbach (nella resa del dettaglio è un maestro) espone le dinamiche del rapporto tra i quattro protagonisti: la loro amicizia appare per i più maturi come un’utopica chance di recuperare il tempo perduto, mentre la coppia più giovane, lungi dal farsi usare a tale scopo, ma concedendo questa impressione (la fascinazione, in realtà, non è mai reciproca), sta manovrando la relazione a suo esclusivo vantaggio. Josh e Cornelia, attraverso Jamie e Darby, entrano in un cono temporale paradossale che li risucchia, in cui credono di ri-conoscersi, ma che non è altro se non una reinvenzione comoda e opportunistica di quella dimensione giovanile che i due quarantenni vorrebbero recuperare e rivivere. Josh e Cornelia lavorano nel documentario, guardano la realtà con occhio critico e razionale, ma non riescono ad analizzare con altrettanto distacco la loro personale esperienza di vita, non comprendendo quanto la coppia di cui si sono invaghiti li stia manipolando e quale sia la posizione di vantaggio che questa può vantare nel recupero di un’epoca a cui non appartiene: Jamie e Darby non sono condizionati da quell’epoca, la guardano col senno di poi, depredandola coscientemente, metodicamente; Josh e Cornelia ne sono intrisi, non condividendone solo simboli e feticci, ma incarnandone l’etica profonda.
Noah Baumbach, che da sempre (basti per tutti il protagonista di Greenberg - il suo film perfetto -) mette a nudo il contrastato rapporto tra i personaggi e il loro vissuto, fa emergere una sostanziale critica nei confronti della nuova gioventù che, con molto più calcolo e rapacità che nelle epoche trascorse («La loro casa è piena di cose che noi abbiamo buttato»), vampirizza la generazione precedente (quella che è stata definita “di mezzo”), sedata dal benessere, imbottita di illusioni e che vive in perenne crisi d’identità («Vuole quello che voglio io, ma non è abbastanza spietato» dice di Josh il suocero). Il documentarista quarantenne, per Jamie, non costituisce un esempio col quale misurarsi umanamente o arricchirsi positivamente, ma un calice di esperienze, di contatti (il suocero, il montatore) e di idee che va bevuto fino all’ultima goccia, uno scrigno da svuotare, un gancio da sfruttare, un totem da adorare e bruciare quando non sarà più utile. Il culto del passato della coppia hipster non è un patetico vezzo, sottende una sostanziale pigrizia che è propria di una generazione che, rispetto alla precedente, è disillusa e ha obiettivi precisi e divoranti ambizioni, ma che non sa cosa sia la dedizione, la pazienza, la fatica: evita dunque il lavoro di attesa, di concentrazione, di ricerca, muovendosi invece per sotterfugi, astuzie, stratagemmi, accorti copiaeincolla. Sostenuti dalla convinzione opportunistica che nulla di originale possa essere più creato, Jamie e il suo tempo rinunciano all’intuizione, non inventano niente, riciclano. E non elaborano neanche i pezzi di passato che raccolgono: archiviano (la parete di vinili non è altro che l’esemplificazione di questa sterile tendenza alla musealizzazione) e usano spregiudicatamente, acriticamente, volgarmente quei repertori. La retromania di Jamie e Darby, del resto, è il sintomo rivelatore di una tendenza attuale: non si azzarda muovendosi in avanti, ma si ripiega strategicamente all’indietro; non si è tentati dalla scoperta, ma ci si pasce delle riscoperte di un tempo trascorso sempre più prossimo e sempre meno remoto, tale atteggiamento coagulandosi in una logica parassitaria e comoda in cui la retroguardia passa per avanguardia e il passato per futuro. Jamie consegna a Josh una versione artificiale della sua era, occupando, gradino dopo gradino, generazione (quella di Cornelia, che bacia) dopo generazione (quella precedente a cui appartiene il padre di lei, a cui approda) il suo posto. Senza sforzi, senza mai mettersi seriamente in gioco.
In questa amara constatazione While We’re Young, al netto delle ironie e dei toni brillanti, appare un film davvero sconsolato: il panorama che restituisce è quello di una cinica congiura globale, epocale e per questo inafferrabile (dunque chi la denuncia - Josh - passa per paranoico), in cui si azzanna l’altro con cortesia, si succhia il sangue altrui col sorriso sulle labbra, si piantano pugnali nella schiena tra una pacca e l’altra. In questo approccio il regista dimostra ancora un profondo senso dell’analisi della condizione umana, ribadendo l’unicità del suo sguardo sociologico.
Ciò detto, convince molto meno il modo in cui queste intuizioni vengono fatte convergere nel plot. Si ha constantemente l'impressione che il film non nasca dai personaggi e dalla storia, ma dal tema, dall'idea di fondo dello scontro generazionale, e che sia questa idea a dettare l'agenda dello sceneggiatore Baumbach. Non si spiegano altrimenti certi schematismi, certe legnosità mai prima riscontrate nei film del Nostro, sempre straordinariamente armoniosi nello sviluppo dei caratteri, nello svolgimento delle narrazioni e nel modi scelti per far emergere le teorie di fondo sul'lindividuo, sulla coppia, sulla società, presenze costanti nei suoi lavori, ma mai sottolineate, rimarcate, insistite platealmente come avviene in questo caso. Il tema, in While We're Young, non è mai in filigrana, ma sempre evidenziato, in primo piano, sottolineato a volte in maniera chiassosa (certe battute: «Stare insieme a loro ti dà una carica di energia»), con accenti farseschi (il corso di hip hop, gli acciacchi di Josh che emergono tutti insieme e all'improvviso) e simmetrie dimostrative (IPad, Iphone, Mac, videogiochi da una parte, VHS, vinili, audiocassette sul cruscotto, giochi da tavolo dall'altra), secondo una logica commerciale di aperta leggibilità, legittima, ma che mal si concilia con il tono generale di un film che si muove su un altro fronte, quello della raffinata commedia metropolitana che strizza l'occhio al cinema europeo (ancora e sempre Woody Allen, fosse anche soltanto per la pervicacia con la quale il regista continua a muoversi nell'ambiente arty e radical chic newyorkese) e del mumblecore agrodolce. In questo spettro non solo viene inserito forzatamente un meccanismo tramico classico che procede a tappe e prevede una rivelazione finale, ma anche certi passaggi meno felici (la parte dello sciamano: debolissima; il discorso di ringraziamento del suocero in parallelo spudorato con il dialogo-resa dei conti tra Josh e Jamie) che vanno a intasare un quadro già saturo.
Lo stesso piano dei riferimenti, come al solito colto e ricchissimo, e in altri film pertinente, qui cozza con le dinamiche della narrazione tradizionale e finisce col creare ibridi indecisi. La versione carillon di Golden Years di Bowie - di James Murphy degli LCD Soundsystem, che cura il soundtrack - apre il film con un colpo d'ala (c'è, nella scena col bebè, una concentrazione di significati felicissima), ma, ad esempio, il Vivaldi truffautiano, quale rinvio all'amata Nouvelle Vague, presuppone troppo, così come è in sovraccarico il riferimento a Solness il costruttore [1] di Ibsen, dichiarato dalla didascalia iniziale (la storia è quella di un architetto affermato che si deve confrontare con le nuove generazioni e che vive nel terrore che queste lo soppiantino) e dimostrazione preventiva di quel programma di intenti che affliggerà tutta la pellicola, un'opera transitoria, di argomentazioni probabilmente urgenti, e in cui, di conseguenza, ogni passaggio e ogni dialogo tendono meccanicamente a dare sostanza e giustificazione all'argomento centrale.
[1] L’immagine dei giovani come diavoli tentatori prima e spiriti invasori da esorcizzare dopo («È un demonio!» dirà Josh di Jamie) è sottolineata dal dialogo del dramma in didascalia col quale si apre il film. A Solness che ha sprangato, metaforicamente, le sue porte ai più giovani, Hilde replica: «Penso che forse dovresti aprire la porta e lasciarli entrare» (Well, I think maybe you should open the door and let them in). il motivo è ripreso poi, nel corso del film, in chiave musicale: “Someone's knockin' at the door/ Somebody's ringin' the bell/ Do me a favor/ Open the door and let'em in», Let’em in, Paul McCartney & The Wings).