Commedia, Recensione

GIARDINI IN AUTUNNO

TRAMA

Vincent é un ministro, un uomo potente, non brutto, piuttosto elegante, grande bevitore e buongustaio. Odile, la sua amante, è una ragazza molto bella, intelligente, lucida e affascinante. Ma prima o poi dovrà perdere la carica, l’appartamento e la fidanzata. E comincerà a vivere…

RECENSIONI

Divaricare totalmente il compasso narrativo, abbandonarsi completamente alla transitorietà delle cose e delle situazioni, sfrangiare la partitura filmica fino a renderla una squisita, ininterrotta divagazione: Giardini in autunno è l’ennesimo sublime elogio all’inconcludenza di Otar Iosseliani, insieme a Philippe Garrel il più grande cineasta vivente. Una stravaganza così radicale, tuttavia, non si era mai vista nelle opere del regista georgiano: forse soltanto Un incendio visto da lontano, nella sua riformulazione integrale di una comunità incorrotta, si era avvicinato a questa intensità di trasfigurazione. Stavolta ad essere oggetto di derisione immediata non è più l’universo familiare di Addio terraferma o quello professionale di Lunedì mattina, ma, più ampiamente, la società (francese) contemporanea con la sua sete di potere, la sua avidità, la sua idiota prosopopea. Preso nel meccanismo dell’ambizione, Vincent (uno strepitoso Séverin Blanchet) non si accorge di aver rinunciato a vivere e, firmate a malincuore le dimissioni, realizza improvvisamente l’importanza di ciò che stava perdendo: le amicizie disinteressate, il piacere della musica, il desiderio, l’ospitalità, la generosità. La jouissance, in una (bella) parola. Intorno a lui un coro di personaggi che complicano e amplificano questo allegro malinconico rondò, figurine svelte e guizzanti o bonarie e sapide (irresistibile Michel Piccoli en travesti nel ruolo abitualmente ricoperto da Narda Blanchet e gustosissimo lo stesso Iosseliani nei panni Arnaud, emblematico “coltivatore della bellezza”) che vanno vengono cantano bevono litigano si azzuffano e infine si riconciliano, pagliuzzando di mille sfumature e lumeggiature un ordito straordinariamente variopinto. Puro incanto cinéphile. Talmente abile da bordeggiare sarcasticamente l’autoparodia, il cineasta georgiano si diverte a gonfiare i tratti distintivi del proprio cinema ostentandoli scherzosamente: la flânerie, svincolandosi da qualsiasi significato problematico, si trasforma in percorso magicamente risolutivo, la convivialità alcolica, perdendo la violenza lieve dei film passati, si addolcisce in “armonia a tavolino” e il carattere esemplare della parabola di Vincent, astraendosi progressivamente, si fa squillante metafora. Ma sono segni di stupefacente vitalità, tracce evidenti della salute espressiva di un cineasta che sa ancora attingere al cuore della sua poetica, lavorandone le cifre più riconoscibili (e riconosciute) senza farsene schiacciare o intimidire. Inutile affannarsi a riconoscere in filigrana i modelli del suo cinema (Clair e Tati sono i più gettonati), la sensibilità di Iosseliani si nutre delle suggestioni più disparate. Dei proverbi, ad esempio, come quello - più che condivisibile - che recita: “È meglio non fare niente piuttosto che fare qualcosa che non vale niente!”. Che dire? Un toast pour Otar!

La propensione ad uno stile di vita anarchico e straniante, costante ineludibile che sottende ogni delizioso acquarello di Otar Iosseliani, è cosa nota ai suoi estimatori. Ma mai come in Jardins en Automne il maestro georgiano ha reso la lettura del suo pensiero così esplicita e diretta (pur all'interno dell'abituale ciondolare narrativo, sempre più libero e fantasioso), e non tanto nel ritagliarsi il ruolo esemplare di artistoide spensierato e godereccio, quanto piuttosto nella scelta di far vivere ad uno stesso personaggio i due ruoli antitetici della sua poetica, l'uomo nell'esercizio del potere, e quello libero da ogni obbligo e condizionamento sociale. Come ribadisce nell'intervista di Claire Vassé, la "joie de vivre" è condizione destinata a estinguersi inesorabilmente in un mondo dai percorsi sempre più obbligati e prestabiliti, nel quale successo nel lavoro, inseguimento del potere, sopraffazione per il possesso (quasi sempre superfluo), cieca adesione a convenzioni ammuffite, sono più autoimposizioni indotte dalle sovrastrutture sociali, che reali bisogni o scelte coniugate con il corso naturale della vita. E Iosseliani esplicita la sua concezione radicalizzandone gli aspetti di contrapposizione con l'attuale stato delle cose, fino ad arrivare a vere provocazioni, mezzi efficaci nel teorizzare che vivere liberi rinunciando ad agi, regole e sicurezza, rende più felici e in armonia con gli altri. La casa è dunque un optional quando si hanno molte amiche disposte ad ospitarci (e non limitarsi a quello...), i soldi non servono se si fa qualche lavoretto a chi ci dà da bere, è più salutare leggere un libro che eseguire uno sfratto, lugubri limousine (le bare dei ricchi) sono decisamente meno divertenti che temerari pattini a rotelle; e se proprio si deve prendere la macchina ci sono sempre cancelli lungo la strada (e lungo la filmografia del Nostro) da usare sovversivamente come punchball. E se per esaltare formalmente questa dicotomia Iosseliani non esita a estremizzare il suo morbido surrealismo fino a portarlo in territori buñueliani (la rissa per futili motivi politici, i popi dediti all'alcool), purtuttavia ciò non snatura il suo stile leggero e ironico, ma lo rende semmai ancor più tagliente e divertito.