Drammatico, Recensione

GABRIELLE

Titolo OriginaleGabrielle
NazioneFrancia / Italia
Anno Produzione2004
Durata90'
Tratto dadal romanzo di Joseph Conrad
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Una casa dove si va volentieri. Lunghe serate durante le quali si ascolta, si guarda, si ride, si afferma una cosa e il suo contrario. Ai padroni di quella casa arride il successo e la loro esistenza è di quelle che si invidiano. Ma un giorno qualcuno esce e tarda a tornare. E quando il campanello suona il mondo ha uno scossone. Un giorno, un uomo e una donna si ritrovano in questa casa e per la prima volta si vedono davvero. Una l’ha voluto, l’altro no. Uno vuole parlare, l’altra non vuole. Difficile stare nella stessa casa quando non si vogliono le stesse cose.

RECENSIONI

La buona società spia le camere da letto, il tradimento va giustificato prima di fronte a quello sguardo e poi dinnanzi alla propria coscienza: nel gioco al massacro tra due coniugi agisce da un lato la rimozione e il pervicace rifiuto del marito a capire, accettare il vuoto che ha sempre contraddistinto l’unione, dall’altro la lucidità spietata della moglie che torna al cimitero coniugale solo perché conscia che l’amore da lui dichiarato non può imbrigliarla: è un falso gioiello che splende solo per ingannare il bel mondo di cui l’ipocrisia è motore (Se avessi pensato che mi amavate mai sarei tornata). La lettera di addio che Gabrielle gli lascia, frutto non di impulso ma di scelta ragionata e sofferta, spacca la cortina plumbea della finzione, mette in crisi un legame che è prima di tutto un patto sociale, e obbliga la coppia muta al dialogo, quello vero, al confronto senza filtri: dalla schermaglia dolorosa non emergono ragioni o torti, semplicemente un velo si squarcia, qualcosa, sotto la pellicola vellutata del loro menage borghese, viene finalmente messo a nudo. Lui è dapprima evasivo, nega l’evidenza, tenta ancora una replica della farsa; Gabrielle, che non vuole spiegare il motivo del ritorno a casa, è brutale nel voler fare di Jean il testimone della novità interiore che sente maturare in lei; entrambi, dimentichi per troppo tempo del desiderio, della passione, dei loro stessi corpi, di fronte alla nudità inerme del loro stare insieme si tormentano a vicenda, ognuno a suo modo. La storia ruota intorno ai due, la servitù fa da coro, gli habitué della casa sono pubblico occasionale, a tratti chiamato in causa, cadaveri pietrificati nei salotti, impassibili spettatori di drammi umani, pronti a divorare cene e loro stessi: Jean vaga tra loro, la luce densa delle candele, come tra statue incomprensibili.
Le vicende, tratte da un racconto di Conrad (Il ritorno), sono tutte concentrate tra le mura dell’elegante dimora della coppia ma Chéreau, uomo di teatro e regista di film tutti diversi, nonostante l’unità spaziale, la suddivisione dell’opera in lunghi capitoli, i toni letterari dei dialoghi, la recitazione ricercatissima (Greggory e Huppert, interpreti superbi), fa (grande) cinema dall’inizio alla fine ricorrendo, con un’insistenza quasi ingenua, ai mezzi che la settima arte gli offre, senza mai scadere nel banale effettismo: dal colore, al bianco e nero, dal ralenti, al fermo immagine, dalla voce over alle didascalie (usate a tratti in luogo di intere frasi). GABRIELLE, mirabilmente fotografato da Eric Gautier (che si ispira alla luce dei quadri dell’epoca, Fantin-Latour in primis), forte di un montaggio che non si appiattisce su un’unica prospettiva, è dunque magnifico film di artifici in cui la macchina da presa si muove categorica, conducendo lo sguardo dove vuole, enfatizzando un dettaglio, planando su corpi e oggetti, radiografando stati d’animo, infine affogando trionfante in un mare di chiacchiere, in un fiume di lacrime.

Convivono, sposati, da dieci anni, ma non si amano o, almeno, concepiscono l'amore in maniera differente. Lui la vuole accanto per quieto vivere e si rende conto della profondità del loro legame, ma anche dell'esteriorità, solo quando sta per perderla. Lei sembra esigere passionalità, ma della Bovary di Flaubert ha solo l'apparenza. Ancora amori contrastati nei salotti francesi, dove a sontuosi ricevimenti in cui le chiacchiere evaporano insieme alle bollicine dei vini più pregiati, si alternano rese dei conti affettive in cui si parla di grandissime passioni a denti stretti, non tradendo la minima emozione. E dove chi sembra gelido e calcolatore, attento a non infrangere le regole della vita in società, si rivela inaspettatamente capace di gesti estremi. A parte la ben delineata e raffinata inversione di ruoli, il film di Patrice Chéreau illumina poco sulle dinamiche della coppia protagonista, chiudendo in interni austeri l'ennesima consapevolezza di un amore finito, forse mai nato, comunque non nutrito dalla capacità di comunicare. I lunghi monologhi alla base della sceneggiatura hanno più a che fare con il teatro che con il cinema e per ricordare allo spettatore che è seduto davanti a uno schermo, Chéreau azzarda didascalie stridenti, una ridondante musica (di Fabio Vacchi) da noir anni '40 e repentini, quanto criptici, passaggi dal bianco e nero al colore. Bravi gli interpreti, in particolare Isabelle Huppert ancora una volta perfetta nell'incarnare antipatia e freddezza, ma poco accessibile, a causa di un evidente intellettualismo di fondo, il disagio dei personaggi.

Il film di Chéreau non è, come pure si è detto, il pamphlet inamidato e acido di uno snob che si trastulla con giovanili méne dissacratrici per impartire lezioni di cattiveria a giovani registi à la page, tutti casa e norma. È invece la lucida riflessione - avara d’emozioni - su un simulacro destinato, pare, all’eterno ritorno, e oggi suprema ambizione di molti che un tempo ne diffidavano come della peste. Joseph Conrad, cantore austero di destini prigionieri di un mos imperioso, fornisce il soggetto di un’opera dalle grandi ambizioni teoriche, non del tutto assistite da un’adeguata resa estetica: in parte perché lo scrupolo formale, che ha in generale il merito di valorizzarle, sembra talora troppo esibito e pago di sé, benché la colonna sonora acuminata e scostante impedisca allo spettatore di crogiolarsi nel brodo delle immagini extra-lusso; in parte per gli improvvisi scarti linguistici (variazioni cromatiche, irruzioni in primissimo piano della parola scritta), fastidiose forzature in un lavoro che se sul piano drammaturgico è stilizzato all’eccesso, su quello diegetico è ben attento a riprodurre gli stilemi del grande teatro borghese a cavallo tra ‘800 e ‘900. Teatro cui Chéreau ha sempre guardato con interesse (Peer Gynt), tanto da ricondurvi alcune scene della sua epocale Tetralogia, e che qui riceve l’ulteriore omaggio di una citazione da Sussurri e grida, film di Bergman tra i più vicini alla poetica di Strindberg.
Un teatro della tortura, se si pensa ai tormenti che i suoi protagonisti infliggono a se stessi e a chi li circonda con l’arma della parola. Il confronto tra i coniugi è sanguinoso, implacabile, e smaschera alibi, abbatte difese, denuda miti. Allo stesso tempo, mostra l’ineludibilità di tali orpelli: ridicoli e indifendibili, eppure inamovibili; e la m.d.p. fa la sua parte scrutando le increspature dei volti, gli scatti improvvisi, i gesti inconsulti, la cornice ambientale opprimente. Sono gli stessi temi che, negli anni in cui Gabrielle è ambientato, andava elaborando l’analisi di Simmel: l’alienazione dell’uomo schiacciato da pattern spirituali di cui non può fare a meno ma dai quali la sua vita resta soffocata. Così, Chéreau perlustra le forme-prigione in cui una società sterile e prossima a deflagrare raggela inquietudini e istinti, sentimenti e bisogni: il matrimonio, il decoro, la conversazione sofisticata e sfuggente, l’arredo prezioso, le convenzioni balorde e rigide bilanciate da un sarcasmo maligno e querulo, la stessa piramide sociale con le sue barriere di potere e d’orgoglio. Un trattato di patologia che non guarda al passato, ma al presente, esattamente come il pensiero di Simmel ha ricevuto penetranti sviluppi dalla Scuola di Francoforte. Nelle scene che aprono e chiudono l’opera, il protagonista è confuso nella folla: egli è ancora l’altoborghese che mantiene una corte di servi per essere vestito e nutrito, l’uomo d’affari riverito e autorevole, ma al tempo stesso è già l’uomo-massa spersonalizzato e fatuo, che si illude di sopravvivere come individuo attraverso il denaro, la cultura, il prestigio, la rispettabilità: una speranza di salvezza definitivamente irrisa dalla secca risata di Isabelle Huppert, un’attrice che ha ormai valicato le soglie del mostro sacro. Lei potrà tornare a casa perché la conosce per quell’Ade che è, e vi si rassegna; lui ne fuggirà per aver scoperto di essere non già il dominus di una dimora invidiabile, ma il suddito impotente di un regno più tremendo dell’inferno.