TRAMA
William Bonney, alias Billy The Kid, vuole vendicare la morte di un amico allevatore di bestiame, causata da un rivale e dallo sceriffo locale. Intanto, Pat Garrett diventa sceriffo e gli dà la caccia, mentre Moultrie foraggia con notizie distorte uno scrittore che fa di Billy una leggenda.
RECENSIONI
La prima volta al cinema di Arthur Penn, sotto l’egida del produttore Fred Coe, suo compagno d’armi e promotore sia a teatro sia nel piccolo schermo: la sceneggiatura di Leslie Stevens, già collaboratore di Penn per la serie “Playhouse 90”, si basa su di un testo di Gore Vidal per la serie “The Philco Television Playhouse”, The Death of Billy the Kid diretto da Robert Mulligan e sempre interpretato da Paul Newman. Penn lo trasforma, ne accentua la carica psicanalitica, edipica, cristologica (Billy votato al sacrificio, vittima delle circostanze e del desiderio di mito degli esseri umani: non casuale la scena della Pasqua messicana con l’uomo di paglia dato alle fiamme o quella dell’uomo arrestato che pare un cristo in croce), contro-istituzionale e tormentata/giovanile, inseguendo una forma che, rispetto ai canoni hollywoodiani, era già demistificatoria e visionaria (vedi l’assassinio di Tunstall), incentrata sul corpo attoriale in un modo del tutto personale, insolitamente antispettacolare e metatestuale (il tema dell’uomo che lotta contro il proprio personaggio, in cui resta intrappolato), tecnicamente anticonvenzionale (lo zoom che scavalca la finestra; l’utilizzo di più camere come in televisione, che causò non pochi litigi con il direttore della fotografia). Se ne accorsero i critici francesi ma non il pubblico e la stampa specializzata degli Stati Uniti, dove fu un insuccesso. Penn entrò in contrasto anche con i produttori che gli tolsero il final cut, tagliarono le scene sulla presunta omosessualità di Billy e modificarono il finale in cui apparivano varie donne-maddalene al lume di candela. Paul Newman, che Penn aveva già diretto in The Battler per la serie “Playwright ‘56”, è già il simbolo del cambiamento, un’afflitta icona sexy secondo il Metodo dell’Actor’s Studio che Penn, per tutta la carriera, abbracciò e disconobbe contemporaneamente.