TRAMA
Stato di New York. Ray, abbandonata dal marito, ha problemi di danaro. Conosce per caso Lila, una mahawk della vicina riserva, e scopre un modo per procurarsi i soldi che le servono.
RECENSIONI
Grande successo al Sundance, dove ha beccato premi, piuttosto apprezzato ai Festival, outsider agli Oscar, Frozen river, ricoperto di allori, giunge nelle sale italiane foderato di aspettative. Ben riposte? Insomma. Ambientando la vicenda su un territorio ibrido, una scacchiera in cui cambiando casella cambiano le regole (siamo nello stato di New York, al confine col Quebec e nei pressi di una riserva Mohawk), la regista e sceneggiatrice Courtney Hunt, al suo debutto, gira con camera a mano, sta attaccata alla sua intensa protagonista e cerca di trarre dall’insieme degli elementi in gioco la maggior quantità possibile di implicazioni: il denaro, che come in Vegas di Naderi (alle tinte color terra che invadevano lo spazio di quel film si sostituisce il bianco accecante della landa ghiacciata su cui vengono tracciati i percorsi dei personaggi), è la droga e il mito (il marito di Ray – figura solo evocata – è vittima del vizio del gioco e manda in malora la famiglia, depredandola di tutte le sue sostanze), dall’altro strumento per assicurarsi in primis una serie di beni voluttuari (lo status come esigenza basica: il megaschermo digitale a rischio di sequestro è importante quanto la rata sulla casa), poi simbolo immediato di sopravvivenza assoluta (di qui il morboso contarlo e ricontarlo); la maternità, condizione vissuta con difficoltà e tormenti tutti contemporanei (abbandonata dal marito, Ray, alle soglie della povertà, cerca di mantenere un equilibrio nell’esistenza dei suoi figli, un adolescente consapevole e un bambino; la nativa Lila è costretta a fare la trafficante per ottenere il denaro necessario a mantenere un figlio che le è stato strappato; l’immigrata pakistana recupera in extremis il suo neonato, nascosto nel borsone abbandonato in strada – è questo il frammento narrativo più calcolato di un film che in generale contratta con i temi in gioco a ogni piè sospinto -); il bisogno come spinta ineludibile che scardina anche i fondamenti dell’etica personale (la protagonista si ritrova, quasi senza volerlo, spinta dalle circostanze e dal suo essere bianca, dunque insospettabile, a violare la legge e a mettere a rischio la sua già incerta situazione familiare). Intriso di una poetica della marginalità che tenta da sempre certo cinema indipendente americano, complicato dalla delicatezza degli argomenti in ballo (l'articolato intrico morale che ne deriva sembra congegnato dal Laverty loachiano), Frozen river, venduto inopinatamente come il thriller che non è (scordatevi il tanto evocato Fargo, non c’entra nulla), si vuol proporre soprattutto come dramma umano che dipinge, a tratti anche con una certa cura, complice la maschera persuasiva di Melissa Leo, una crisi intima e familiare sullo sfondo ben definito di una realtà sociale problematica, sorretto da un approccio visivo scabramente realistico, ma facendo i conti con passaggi forzati dalla Tesi e la stanca dilatazione di una narrazione spesso stentata.
