Recensione, Thriller

FROZEN (2010)

Titolo OriginaleFrozen
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2010
Genere
Durata95'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Tre amici decidono di passare un weekend sciistico nel New England ma rimangono bloccati, in compagnia dei lupi, sulla seggiovia. Che riaprirà una settimana dopo. Allegria.

RECENSIONI

Il Thriller/Horror stanziale. E’ (già) un genere? Lo diventerà? Ce ne frega qualcosa? Il pensiero corre, certo, agli “antesignani” come Hitch (Lifeboat) o Litvak (Sorry, wrong number) ma anche agli epigoni più o meno recenti come lo Schumacher di Phone Boot e, soprattutto, risulta impossibile non citare l’omologo fino al semi-plagio Open Water e “l’estrema conseguenza” Buried. Frozen, insomma, punta alla nota scarnificazione (nella fattispecie, numerica) delle location in favore dell’agorafobia indotta.

Dopo la consueta mezzoretta preliminare di presentazione vicenda/personaggi, il film 'si ferma' sulla/con la seggiovia dei tre malcapitati e vi rimane fino alla fine. Registicamente Adam Green decide, com'è ovvio e forse inevitabile, di stringere sui personaggi e di lasciarli parlare il più possibile, almeno fino a che la sceneggiatura glielo consente. E in effetti, per un po' glielo consente. Le risapute tensioni tra i protagonisti innescate nel prologo con sfacciata autoconsapevolezza, esplodono e si ricompongono in tutti i modi possibili, tra gli appigli pop alla (sotto?)cultura yankee (gli Aerosmith) e il brumeggio cinefilo per palati nerd (il richiamo alla lentissima digestione sarlacchiana). Quando la corda è stata tirata a dovere, il primo evento traumatico incanala Frozen nell'unica direzione possibile, quella dell'alta tensione: la soggettiva di Dan che si butta dalla seggiovia e si rompe entrambe le gambe con frattura esposta, scomposta e sanguinolenta è l'equivalente dell'entrata in scena del monster nel monster movie.

Da lì in poi, il film gioca tutte le carte ansiogene possibili. La duplicazione della situazione di immobilità/impotenza (Dan sotto, Lynch e Parker sopra) viene complicata in chiave esplicitamente horror (i lupi famelici sotto, il congelamento splatter e i cavi strappapelle sopra) e dilatata al limite del collasso strutturale, mentre Green, se da un lato sfoggia maturità e misura (relega quasi completamente fuori campo il fiero pasto lupesco, affidando il disturbo al sonoro e alla crudeltà della situazione), dall'altro si ricorda dei suoi trascorsi slasher/gore (i due Hatchet) generando tensione con lenti movimenti di macchina che procrastinano la rivelazione del dettaglio raccapricciante (la mano 'incollata' alla sbarra) per poi indugiare sulle conseguenze (la pelle che, con studiata lentezza, si lacera e si stacca). Tutto giusto, tutto ben fatto quanto atteso e pre-visto. Il finale - sorta di versione happy di quello visto in The Descent - è anch'esso prevedibile, ma giunge dopo un efficace tour de force dal quale non è poi così difficile farsi sedurre. A patto, certo, di bersi la cosa dell’impianto che chiude dalla domenica al venerdì, quella dei lupi che si precipitano sulla pista da sci a poche ore dalla chiusura, e quella degli 0 cellulari su 3 giovani universitari e il fatto che nessuno li cerchi, questi tre disgraziati, e il bullone che per l’appunto si svita e la seggiovia che precipita e, sì, insomma, tutte quelle clausolette più o meno ricevibili che siamo costretti a sottoscrivere quando affrontiamo un film del genere.

L’idea è la stessa di Open Water: girare ad un relativo basso costo (ma con sprezzo del pericolo per tutti: location vere e nessun ritocco CGI) e raffigurare l’isolamento di pochi personaggi in territori naturali ostili. Là il mare aperto, qui una montagna da cui non si può scendere: tutte variazioni sul survival movie nel deserto. Adam Green, per fortuna, non ha i vezzi dei registi del film citato: la sua è un’opera dalla struttura convenzionale, fra presentazione dei personaggi, idea thriller vincente da sfruttare nelle sue declinazioni e messinscena della tensione con capatine nell’horror. Infatti, per quanto poco conosciuto in Italia, Green negli Stati Uniti è rinomato quale membro dello “splat pack” di Eli Roth e soci, registi che non hanno pudore nel mostrare la carne umana maciullata. La sua scrittura è superiore alla media del settore per dialoghi e descrizione non del tutto futile di un rapporto a tre, fra l’amico di infanzia geloso della “nuova” ragazza del compagno e quest’ultima che, da isterica piagnucolosa, ad un certo punto tira fuori il carattere. Sarebbe stato meglio concentrarsi sulla situazione tesa, inventando maggiori pericoli ed imprevisti, anziché affidarsi così spesso all’interazione fra caratteri, ma quest’ultima è funzionale alla calma prima della tempesta, con la normalità iniziale di giovani in vacanza a suon di brani rock alla Green Day (in parte eseguiti dalla band del regista, gli Haddonfield): accentua il contrasto con l’eccezionalità della situazione in cui si troveranno. I brani shock non sono molti ma funzionano bene: il primo, inatteso attacco dei lupi, la mano che resta attaccata-frozen alla sbarra, l’incontro della ragazza con il branco a pancia piena. Rileah Vanderbilt, che interpreta Shannon, è la moglie del regista.