TRAMA
Approfittando delle sommosse scatenate dall’affermazione dell’estrema destra al primo turno di elezioni, cinque banlieusards mettono a segno una rapina, ma uno di loro viene ferito gravemente. La banda si divide: Tom e Farid si dirigono verso la frontiera lussemburghese e Alex e Yasmine, depositato Sami in ospedale, li raggiungeranno qualche ora più tardi per poi proseguire in direzione Amsterdam. Un motel vicino al confine sembra essere la sistemazione ideale prima di lasciare definitivamente la Francia…
RECENSIONI
Attenti, via! Primi quindici minuti da noir eversivo: émeutes a raffica, cités in subbuglio, flics che sparano ad altezza uomo e cinque banlieusards che se la squagliano con la thune arraffata chissà dove, rifugiandosi in un capannone a leccarsi le ferite e decidere il da farsi. Poi il detour nell’horror più assurdo e inverosimile che mente morbosa possa concepire: The French Border Massacre. Un motel a due passi dal confine lussemburghese gestito da nazifreak sotto mentite spoglie. Benvenuti nell’anticamera dell’orrore: la walkiria Gilberte (Estelle Lefébure), la sinistra Claudia (Amélie Daure) e il cinghialesco Goetz (Samuel Le Bihan) accolgono i fuggiaschi Tom (David Saracino) e Farid (Chems Dahmani) riservando loro voluttuosa ospitalità, finché il surreale idillio si incrina e degenera in tambureggiante danza macabra. Epurazione è la parola d’ordine: mattanza della racaille e rinnovamento del sangue della famiglia. Su questa traccia implacabilmente xenofoba (che dialoga serratamente con lo sconvolgente A l'intérieur di Alexandre Bustillo e Julien Maury), Frontière(s) zampilla ettolitri di sangue e ferocia carnivora: dita mozzate da colpi di pistola, corpi scannati e appesi a ganci da macellaio, tendini d’Achille tranciati con gigantesche pinze, prigionieri incatenati e accoppati come porci nel letame, individui cotti al vapore in capsule cronenberghiane e boucherie riccamente assortita. Autentico tripudio del gore più cruento che si sia visto in un film non underground. Tostissimo, nonostante il carattere caricaturale, anche il taglio politico: come in A l'intérieur la xenofobia è saldata al nucleo tematico della maternità, ma, diversamente dal film di Bustillo e Maury, Frontière(s) trasfigura il razzismo sotterraneo della Francia contemporanea in rigurgito veteronazista e aberrazione domestica (il patriarca farneticante che militarizza la famiglia), cogliendo l’occasione per sciorinare una fascinazione per l’uniforme e i cerimoniali che profuma di soave derisione della Gendarmerie Nationale. Xavier Gens, che ha potuto apportare le ultime rifiniture a Frontiers solo dopo le riprese del film su commissione EuropaCorp Hitman, squaderna una messa in scena di abrasiva irruenza: esaltato da un reparto tecnico semplicemente prodigioso (Frédéric Lainé e Guillaume Castagné al maquillage, Jean-Pierre Taïeb al sound design, Carlo Rizzo al montaggio), il concept visuale del film vibra di rara irrequietezza. Irrorato dalla tavolozza cromatica del direttore della fotografia Laurent Bares (tonalità che schizzano da clangori bluastri a biancori cadaverici passando per oscurità cunicolari e fulgori rosseggianti), il dettato visivo di Frontière(s) non si accontenta della tumultuosità da macchina a mano (si veda la prima sequenza in strada), ma frequenta con altrettanta efficacia i registri della compostezza e dell’improvviso rigore formale (campi lunghissimi, lenti carrelli all’indietro, totali geometrizzanti), esibendo un’elasticità stilistica e una potenza figurativa letteralmente esaltanti. Ils (2006) di Xavier Palud e David Moreau, A l'intérieur (2007) di Bustillo e Maury, Frontière(s) di Xavier Gens: salutiamo ufficialmente l'avvento di una nuova generazione di registi francesi che parlano di politica intingendo la cinepresa nel sangue.
Xavier Gens conferma il fermento in atto nel cinema francese che non sottovaluta brividi e gore dimostrando una volontà produttiva intelligente che rischia su nuovi talenti in grado di competere con i pilastri, per lo più d'oltreoceano, del genere. Si parla già di "nouvelle vague" del cinema horror transalpino facendo riferimento a registi come Eric Valette (Malefique), Alexandre Aja (Alta tensione), Alexandre Bustillo e Julien Maury (À l'intérieur) e ora, appunto, Xavier Gens, subito coinvolto, dopo Frontiers, in un progetto ad alto budget come Hitman - l'assassino, uscito con discreto successo a livello internazionale a inizio 2008. Con l'opera prima Gens si dimostra molto abile nella variante "survival-hardcore". I quattro protagonisti sono ladri che durante la guerriglia urbana nelle banlieu parigine, in occasione delle votazioni per le elezioni presidenziali, si trovano a doversi dividere perché inseguiti dalla polizia. Sono decisi a scappare in Olanda e si danno appuntamento in un albergo isolato incontrato da due del gruppo lungo la fuga, vicino alla frontiera con il Belgio. Peccato che il rifugio improvvisato sia la tana di una famiglia di sadici e cannibali nazisti. Gens viene dal videoclip, e si vede, e dal punto di vista visivo rimescola un immaginario noto cavalcando l'onda dello shock sdoganata, a livello mainstream, dal remake di Non aprite quella porta, prima, e da Hostel, dopo, (e oramai, si spera, in via di esaurimento). L'idea di andare fino in fondo senza cedere al compromesso, mostrando torture e orrori oltre il limite del sopportabile, non è particolarmente originale, forse difficile da imporre ai produttori che temono l'invendibilità del prodotto finale, ma ancora in grado, se l'ufficio stampa funziona a dovere, di garantire titoli sui giornali e incassi soddisfacenti. Ciò che distingue il film di Gens dai tanti omologhi in circolazione è che Frontiers funziona. Il crescendo di angoscia a cui sottopone lo spettatore, infatti, è dato sì dalla gratuità di certe scelte, ma anche dall'indubbio talento del giovane regista nel gestire il cast (la protagonista Karina Testa è bravissima), i tempi e gli spazi, giocando anche sull'attesa e sulla creazione di una credibile deriva emotiva. In tal senso è più riuscita la prima parte, in cui gli antieroi protagonisti si trovano a dover fronteggiare cattivi molto più spietati di loro. Una insana competizione che trasforma spavaldi rapinatori in vittime per cui la prigione rappresenterebbe un miraggio di salvezza. Gradualmente, però, il grottesco estremizza le caratterizzazioni fino a rendere il bagno di sangue un teatro dell'orrore costantemente sopra le righe e, di conseguenza, epidermicamente efficace ma meno capace di coinvolgere. Molti, ovviamente, i modelli di riferimento, partendo da Non aprite quella porta di Tobe Hooper di cui Frontiers sembra una rivisitazione in salsa d'oltralpe; ma il frullato di Gens passa anche per gli stretti cunicoli di The Descent - discesa nelle tenebre di Neil Marshall, per l'atmosfera malsana di Wes Craven (Le colline hanno gli occhi) e per La casa dei 1000 corpi e relativo seguito di Rob Zombie (già a loro volta in forte debito con Hooper e affini), fino a Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini. Ma il coté politico pare soprattutto uno stratagemma per connotare temporalmente l'azione e vederci una presa di posizione tendente a sinistra e finalizzata a stimolare i giovani contro i pericoli dell'estrema destra sembra più che altro una fantasia di certi critici annebbiati dall'ideologia (oppure un'ottima idea dell'ufficio stampa per far parlare del film). Ora che anche la Francia ha spalancato le sue porte da non aprire, dimostrando la presenza di nuovi talenti, si spera però che le chiuda definitivamente, cercando il nuovo senza limitarsi a colonizzare, pur con indubbio mestiere, un immaginario arcinoto. Curiosità: il cattivissimo gerarca nazista è il padre del regista.
Pellicola girata qualche mese prima dell’approdo hollywoodiano con Hitman,ritoccata successivamente in fase di post-produzione, questa da parte del francese Xavier Gens, ulteriore attestazione del fatto che evidentemente la new wave horror francofona (Aja, Moreau-Palud, Bustillo-Maury etc.) potrebbe rappresentare la next big thing da saccheggiare, mentre come valore in sé, di fatto non è più così tanto “next”. L’impressione vivida è che Gens, contrariamente ad autori che potremmo confinare all’interno del medesimo steccato tipologico, possieda più di tutti i requisiti per uniformarsi ai parametri di certo cinema a stelle e strisce, e nelle due opere del 2007 abbia mostrato eccellenti doti di intrattenitore con la m.d.p. L’incipit di Frontière(s) con quel suo aprire il film in maniera estremamente movimentata gettandoci in medias res raffredda il suo gradiente di innovazione dopo i primi dieci minuti. Filmati in presa diretta da real tv sui disordini della banlieu parigina in seguito alle elezioni di un presidente destrorso (quella a Sarcozy non è neppure considerabile un’allusione, piuttosto un esplicito riferimento) testimoniano la grana di una situazione violenta e fuori da ogni controllo, le autorità si vedono impegnate nell’arginare l’attività delinquenziale che ha sopravanzato la rivolta, alcuni giovani riottosi stanno fuggendo a suon di pistolettate con un insospettato bottino. L’action prende il posto della politica, una sorta di La haine revisited sembra trasformarsi in Trainspotting, prima del balzo, temporale più che spaziale, nella no man’s land lussemburghese abitata dagli ennesimi antropofagi.
L’immagine iniziale a tutto schermo di un feto durante l’ecografia (quasi come in À l’intérieur), insieme al volto insanguinato della ragazza incinta e della sua stessa immagine riflessa in uno specchio frantumato unitamente a quella del suo ex-fidanzato, fanno parte della simbologia semplice e minima di un film che sappiamo già dove andrà a parare, (debole) metafora xenofoba inclusa. Sarà solo questioni di snodi e varianti intorno a una struttura narratologicamente chiusa. Tutto già detto e già visto (i ragazzi sperduti, il motel, la sacra famiglia cannibalica), da Hooper a Zombie, ma con un savoir dire e un savoir faire voir degni di assoluto rispetto, soprattutto nei confronti di una fotografia che sa come impastare le fredde cromie dei lugubri basement al sudiciume ocra degli interni del motel, il tutto innaffiato nel rosso vermiglio degli ettolitri di sangue, e di un montaggio ritmato davvero da paura. Film di allucinate, sanguinolente e putride atmosfere più di ogni cosa dunque, nel quale il gusto dell’eccesso gore può concedersi tregue di (in)sano parossismo gordonlewisiano (l’anziano pater familias, grottesco residuato nazistoide che nei momenti topici fischietta Lili Marleen, o rimembra sardonicamente vetusti slogan terzoreichiani che nulla avevano a che fare con i meccanismi del comico) e che fanno virare deliziosamente l’a tratti insostenibile senso del macabro in colossale farsetta da avanspettacolo di quart’ordine, almeno prima che la blood feast liberatoria della mattanza finale cominci.