TRAMA
Istanbul è in preda alla violenza politica. Hamza, un alto ufficiale di polizia, offre a Kadir una libertà condizionale dal carcere. Per uscire di prigione, l’uomo deve accettare di lavorare nella nuova unità di operatori ecologici che raccolgono informazioni per i servizi segreti. Kadir accetta e comincia a raccogliere rifiuti nelle baraccopoli, controllando se contengano materiali collegati alla produzione di ordigni esplosivi. In una di queste zone, Kadir incontra suo fratello minore, Ahmet. Il giovane lavora in una squadra comunale responsabile dell’abbattimento dei cani randagi. La riluttanza di Ahmet a stabilire un legame fraterno con Kadir, malgrado le insistenze di quest’ultimo, induce Kadir a inventarsi ipotesi di complotto per spiegare la distanza del fratello.
RECENSIONI
I connotati sono quelli del delirio: dati concreti di fondo, ma amplificati a dismisura, fino a creare un universo in cui la regola è l’eccesso. Abluka di Emin Alper è la messinscena allucinatoria e paranoide di un mondo strutturalmente alterato dal sentimento di terrore indotto dalle politiche securitarie: una tirannide che colma il proprio desiderio di repressione attraverso lo spossessamento dei segreti dell'altro, al fine di coglierne segni d’insubordinazione e neutralizzarli; un sistema politico capace di trasformare «“uomini semplici” in parti del suo meccanismo violento fornendogli autorità e strumenti di violenza».
Il regista, per recuperare un'espressione di John Barth, costruisce il proprio film attorno all'idea di «definitività del nostro tempo» concetto che si può provare a spiegare rimandando a quella condizione estrema, tanto diffusa da essere diventata quasi un comune sentire: non quello della fine della Storia ma l’illusione della sua fine; cioè la condanna a un'imminente catastrofe, conseguenza determinata da un clima di tensione isterico e paranoico causante frammentazione psichica, dissoluzione della realtà, deriva ad occhi aperti, e altri sintomi debilitanti propri della postmodernità apocalittica.
E il senso di apocalisse è forte di fronte al paesaggio propostoci: Istanbul è una landa detritica di pietrame e laterizi rotti; la città è sfondo di una periferia di case, ormai ridotte a resti di abitazioni, tra cui girano, randagi, cani senza padrone accorti a non farsi abbattere dagli spari delle squadre comunali, come quella in cui è impiegato Ahmet, che, oltre a dover “elaborare il lutto” del proprio matrimonio, è costretto a contenere le intromissioni di Kadir, suo fratello maggiore, ricomparso dopo vent'anni di carcere, tormentato dalla colpa di averlo abbandonato. Kadir è in libertà condizionale, scarcerato a patto che riesca, rovistando tra i rifiuti, a raccogliere informazioni, per i servizi segreti, sui focolai terroristici.
La regia salta schizofrenicamente tra questi due fuochi della rappresentazione, mostrando frammenti di situazioni in azione reciproca (opposte condizioni di percezione - tanto si sente incalzato Ahmet, quanto è incalzante Kadir nelle proprie indagini – accomunate da un crescente stato di alterazione). Una messinscena destrutturata che segue il quadro di squilibrio dei due protagonisti, ciascuno vittima del proprio delirio. Il regime allucinatorio è rafforzato da un sound design che amplifica nello spettatore questa impressione di disagio, attento com'è a esasperare i rumori dei martellamenti, dei calcinacci in frantumi, degli spari.
Abluka è un film in abisso che trascina, chi guarda, nel gorgo nella percezione di una percezione di una percezione...