TRAMA
Mississippi, negli anni della Grande Depressione. Tre galeotti evadono per recuperare un tesoro, ma quasi nulla va come previsto…
RECENSIONI
2000: Odissea negli States
"Odissea di Omero, adattata per lo schermo da Ethan & Joel Coen". Immersi nelle pianure dell'America rurale arse dal sole e ristorate dall'acqua (bellissima la fotografia "antica", tendente al seppia, di Roger Deakins), i tre prigionieri sono i protagonisti inconsapevoli (nonostante nomi più che profetici, ad esempio Everett "Ulysses") di una riscrittura demitizzante, sorniona e paradossale del primo romanzo della letteratura occidentale. La guerra di Troia diviene, più modestamente, un periodo di "soggiorno coatto" nelle patrie galere, e si conclude con ripetuti tentativi di incendio (ma qui la situazione è ribaltata, in quanto gli assediati sono "i nostri", che usano il cavallo di Troia, un'automobile, per la fuga), mentre il decennale viaggio di ritorno si risolve in una "caccia al tesoro" che si rivela inutile, per giunta complicata da incidenti di percorso risibili, anni luce dalle tempeste prodotte dagli Dei e dagli amori di creature divine (le sirene sono tre ragazze affascinanti, disponibili e fin troppo scaltre per i rimbambiti protagonisti). Ma non sono solo le circostanze esterne ad essere sottoposte al vaglio critico, ma non spietato, degli autori: i personaggi non sono, come nel mito, "più grandi della vita", ma comunissimi "losers", nostri contemporanei in quanto a manie (religiose ed estetiche), fobie e insopprimibili speranze. Penelope, l'archetipo della fedeltà coniugale, pensa ad un nuovo matrimonio, l'indovino Tiresia è un vecchio cieco che dispensa profezie da un carrello ferroviario (forse un'allusione al punto di vista del regista o dell'operatore cinematografico, osservatore "esterno" ma partecipe), le anime dell'Ade attratte dalle offerte votive di Odisseo diventano una processione battesimale di fedeli canterini, gli uomini non si trasformano in maiali ma in rane, Polifemo vende bibbie e così via; una realtà terribile come quella della Depressione è riassunta dallo squallido balletto elettorale tra il "re della farina", industriale conservatore privo di idee, e il suo avversario, un demagogo apparentemente bonario che di idee per difendere la cultura americana ne ha parecchie, e non punto belle. I Coen, insomma, prendono a modello Joyce e l'Eliot della "Terra desolata", realizzando, sulla base di un mito letterario entrato nell'immaginario collettivo, un finto film d'epoca strutturato come un musical, in cui tutto (dai titoli di testa, alla scelta delle canzoni, alla recitazione) è insieme classico e parodistico, minuziosamente ricostruito e disinvoltamente ricreato. La miscela di umorismo, ritmo, incanto, dialoghi surreali e beffa è una formula collaudata, che qui però dà risultati meno brillanti che nel "Grande Lebowski" o nell'irraggiungibile "Fargo". È come se la ricchezza visiva e la bellezza formale avessero un po' soffocato la cattiveria, lo spirito cinico e il gusto paradossale da giallo kafkiano, risolvendo l'improbabile vicenda in un'apologia (dell'amicizia e dell'indipendenza intellettuale) incontestabile ma certo non originale e in fondo semplicistica, che perde per strada i personaggi e, nel finale, affoga nella melassa. In conclusione: un film superiore alla media generale, ma inferiore a quella dei "wonder brothers", che restano, nonostante l'edulcorazione, la coppia più geniale del cinema contemporaneo, tanto abile nella direzione degli attori da rendere Clooney quasi sopportabile, pur se non paragonabile al resto del cast, semplicemente perfetto.

Fuori sintonia
E' sempre interessante vedere un film in un cinema gremito di persone e confrontare le proprie reazioni con quelle del pubblico presente in sala. Nel caso specifico, a una maggioranza sonnecchiante si contrappone una minoranza fragorosa e partecipe. Con buona pace di Nanni Moretti, mi sono identificato pienamente con il torpore della maggioranza, incapace di aderire all'Odissea infarcita di rimandi colti ideata dai fratelli Coen: Joel, in regia, e Ethan, produttore e co-sceneggiatore. Il poema omerico, trasferito nell'America rurale della Grande Depressione, e' pero' solo un pretesto per una scorribanda cinematografica e citazionista in cui il talento visivo degli acclamati fratelli, pur trovando modo di esprimersi, risulta soffocato da una sceneggiatura sgangherata e piena di tempi morti che non appassiona e non diverte (George Clooney si chiama Ulisse e sua moglie Holly Hunter e' invece Penny alias Penelope, "uh! che risate!!!"). Non bastano neanche la particolare cura fotografica che vira le immagini in un seppia d'altri tempi, e nemmeno l'interpretazione sopra le righe, ma convincente, degli interpreti per evitare la sensazione di una mancanza di sintonia con l'immaginario dei fratelli Coen, ricco, fantasioso, musicale, ma poco comunicativo. E il film non ammette mezze misure. O si e' dentro, e si partecipa al gioco, o si e' fuori, come nel mio caso, e ci si annoia a morte.

Daunbailò di incontri paradossali
Dopo la rivisitazione di tanti generi cinematografici, i Coen aspirano a rileggere un intero secolo (il Ventesimo) contaminando gli usi e i costumi del profondo sud con una versione allegramente scanzonata dell’Odissea di Omero. Un Clooney/Ulisse/Clark Gable, ossessionato dalla brillantina (rigorosamente di marca "Dapper Dan"), è la voce forbita del raziocinio che, combattendo contro le superstizioni, vuole segnare il passaggio al mondo moderno, dominato dai mezzi di comunicazione di massa (la radio, poi il cinema, lo stesso microfono…), dalle ridicole campagne elettorali senza esclusione di colpi, affascinato e terrorizzato (la pena di morte sopravvive) dalle figure criminali (portentosa l’apparizione del gangster Babyface Nelson), dai feticci divistici, dalle donne al potere (infingarde ed opportuniste). Un secolo che, in realtà, si porterà dietro il retaggio delle sette religiose (dal fanatismo dei pii al Ku Klux Klan), sostituite da predicatori da strapazzo (potente la lezione di "psicologia" del personaggio di John Goodman, neo-Polifemo, ma ci sono anche le “sirene”). In questo "on the road"/Daunbailò seppiato di incontri paradossali, accompagnano il nostro protagonista altri due "perdenti", dei Dimenticati (è il titolo dell’opera di Preston Sturges che gli autori omaggiano con "O brother where art thou?", il nome del film nel film girato da Joel McCrea). Il Sud è anche blues, gospel, country: il film dei Coen ha spesso la voglia di trasformarsi in musical, di spezzare il ritmo per incantarsi davanti alle esecuzioni. La prima parte, concentrata su caratterizzazioni (e gag) non travolgenti, pare girare a vuoto, nella seconda prende meglio forma la rappresentazione allegorica "in nuce" del secolo in questione: in questo senso è magistrale e spassosissima la scena del concerto dei quattro "Zz Top" (con barbe lunghe) di fronte ai politicanti (grandi ballerini Turturro e Durning) e ad una folla in visibilio. Ormai le masse preferiscono lo "show" e non tollerano che qualcuno ostacoli il loro divertimento: è tempo (libero) di anni ludici, e la bravura dei politici si misura sulla loro capacità di cavalcare il gusto, non di guidarlo. Domanda: come fanno, all'inizio, a ripartire con la macchina senza il pezzo di ricambio?

Che i Coen siano i piu' consapevoli e capaci manipolatori di generi non esiste dubbio. Nei loro film, grondanti di citazioni, rimandi, allusioni, ammiccano al cinema dei classici, smontano poetiche e filoni con una naturalezza e un'intelligenza da primi della classe. In questo tipo di operazioni non hanno rivali, vincono con distacco netto su tutti i contendenti. Fratello, dove sei? ne e' l'ulteriore riprova. Ma quando non c'è partita si rischia di annoiarsi. Ci piace molto di più vedere i Coen buttarsi in imprese più ardue, combattere su terreni più insidiosi, con l'ansia di una possibile sconfitta. Ecco perché all'algida perfezione dei loro pirotecnici esercizi di stile (cui quest'ultima opera va ascritta a pieno titolo), delle loro impeccabili e sofisticate congerie citazionistiche, filtrate attraverso una sensibilità d'auteur e un talento narrativo scintillante, preferiamo il più originale, personale e meno "lucidato" The Big Lebowski, il migliore di una filmografia per molti invidiabile. Che quest'ultima fatica sia magistrale come sempre, ci sembra un dettaglio; che utilizzi con rara acutezza il poema omerico, facendone un canovaccio per una storia tutta americana, una quisquilia. Straordinaria come sempre la padronanza del narrato: calibratissimo, calcolato al millimetro: non un personaggio stonato, non un elemento di troppo. Tutti gli ingredienti perfettamente dosati, nessuna sfilacciatura, puntuali i rimandi e i collegamenti. Il solito meccanismo a orologeria. Si veda con quale arguzia si cita l'episodio di Polifemo che inghiotte i compagni di Ulisse nella breve, impagabile apparizione del fedele John Goodman; si noti la leggerezza nell'utilizzo dei modelli: nella fotografia quasi seppiata, nei baffetti alla Gable di Clooney, nei momenti fordiani o di puro slapstick. Cinema paradigmatico, schema messo a nudo, pura struttura. Il film come un manuale, un accattivante libro di testo su tutta una branca di cinema ("rileggersi", a tal proposito, l'enciclopedia The Hudsucker Proxy). Di fronte a tale disinvolta maestria, a un passo dalla maniera, si rimane ammirati e interdetti. Per il momento il gioco chiuso in se stesso dei fratellini continua a sedurre. Domani potrebbe diventare sfoggio irritante.
