Drammatico, Fantastico, Recensione

FRANKLYN

TRAMA

Londra. Emilia, studentessa d’arte, per completare una composizione ogni mese tenta il suicidio procurando di salvarsi all’ultimo istante; Milo è stato lasciato a un passo dall’altare, ma per strada intravede la sua prima fiamma; Esser va alla ricerca del figlio perché questi “si è perso”. Città di Mezzo. In una feroce dittatura religiosa esercitata dal Ministero, Jonathan Preest è un giustiziere mascherato con un pallino fisso: eliminare l’Individuo, il capo di una setta di fanatici che ha rapito e ucciso una bambina.

RECENSIONI

Fiaba fantanoir con decorazioni gotiche, Franklyn è l'esordio al lungometraggio di Gerald McMorrow, regista e sceneggiatore britannico (classe 1970) già autore del cortometraggio Thespian X (2002) premiato al London Film Festival. L'intreccio concepito da McMorrow contempla quattro personaggi (Preest, Milo, Emilia e Peter Esser) che agiscono/interagiscono su due piani di realtà distinti ma adiacenti (Città di Mezzo e Londra), disegnando trame narrative apparentemente sfilacciate per poi, come nel più classico dei racconti corali, riunirsi in extremis. A fungere da operatori di raccordo tra i mondi paralleli altri due personaggi: Pastore Bone (l'uomo delle pulizie dell'ospedale psichiatrico) e Sally (proiezione immaginaria di Milo). Se il nucleo drammatico del film è sostanzialmente racchiuso nello scioglimento finale (l'idea di partenza, come specificato nel pressbook da McMorrow stesso, consisteva in 'una giovane donna, sempre nel tentativo di suicidarsi, e qualcuno nell'appartamento al piano di sopra che stava pianificando di assassinare qualcuno per strada'), l'interesse di Franklyn risiede da una parte nel modo in cui il film conduce tortuosamente lo spettatore all'epilogo e dall'altra nell'accuratezza visiva che contraddistingue sia lo scenario 'medievalavveniristico' di Meanwhile City che l'ambientazione in una Londra velata da un'atmosfera propizia alle apparizioni fantastiche (Sally, ovviamente).

Non priva di reminiscenze figurative spigolate nel repertorio della sci-fi anni '80 (da Blade Runner a Brazil passando per 1997: fuga da New York), la rappresentazione di Città di Mezzo (costruzione paranoide di David/Preest, interpretato con combattiva credibilità da Ryan Phillippe) possiede una fisionomia figurativa in bilico tra graphic novel e noir movie cementata dalla matrice gotica ispirata all'architettura di Cambridge (dove è in parte ambientato il film). Con i suoi edifici svettanti e i suoi volumi opprimenti, Meanwhile City è il teatro immaginario in cui si svolge il progetto punitivo di Preest, ex militare traumatizzato dalla campagna in Iraq convinto che l''Individuo' a capo dell'organizzazione 'Duplex Ride' (in realtà suo padre Peter Esser) sia il cinico responsabile della morte di una bambina innocente (in realtà la sua sorellina morta in un incidente). In questo universo distopico e dispotico (tutti gli abitanti devono avere un credo religioso e la legge persegue gli atei) Preest indossa una maschera bianca dalle orbite nere e, sfuggito alla morsa della polizia ecclesiastica, cerca di arrivare all''Individuo' sfruttando le sue conoscenze (il viscido Wormsnake) nei bassifondi di Città di Mezzo.

Londra, raffigurata fuori dai cliché identificativi, ospita invece le altre tre vicende: quella di Emilia (selvaggiamente interpretata da Eva Green), studentessa d'arte di un college che filma i suoi tentativi di suicidio per un progetto da diploma; quella di Milo (Sam Riley, già protagonista di Control), giovane lasciato dalla fidanzata alla vigilia delle nozze che s'imbatte inaspettatamente nell'amore d'infanzia Sally (anch'essa interpretata da Eva Green), figura compensatoria prodotta dalla sua interiorità ferita; e quella di Peter Esser (Bernard Hill), padre di David/Preest che, ignaro del pericolo a cui va incontro, si mette sulle tracce del figlio latitante. Fotografata con tonalità azzurrognole ma dai colori saturi, la metropoli londinese è descritta con un trattamento non meno misterioso di Meanwhile City: i suoi parchi sono postazioni da cui spiare un uomo seduto su una panchina (Emilia che riprende segretamente Milo con la videocamera) o viali deserti da attraversare con la dolce compagnia di una donna inesistente (Milo che passeggia con Sally); i suoi vicoli ed edifici spazi di apparizione e scomparsa di figure enigmatiche (la sequenza 'lynchiana' in cui Milo segue una donna dai capelli rossi penetrando in una stanza sotterranea) o luoghi in cui appostarsi per colpire con un fucile di precisione (David che occupa di prepotenza l'appartamento di Emilia per eliminare l''Individuo').

Ma, al di là della suggestiva manipolazione cinematografica degli spazi, è la ricercatezza dello sguardo di McMorrow a mettere al riparo Franklyn dall'accusa di sterile derivatività: anziché sacrificare la cura del dettaglio figurativo alla scorrevolezza del racconto, l'esordiente cineasta britannico si sofferma sui particolari visivi, dilatando sì i tempi narrativi ma concentrando d'altro canto in ogni inquadratura indizi sottilmente rivelatori (l'indirizzo Duplex Ride scritto da Esser sulla foto del figlio, lo sguardo rivolto a Milo dall'insegnante nel cortile della scuola), analogie sceniche (il colloquio tra Esser a Tarrant che ha la medesima impostazione di quello avvenuto precedentemente tra Preest e lo stesso Tarrant) e citazioni pittoriche (la caravaggesca 'Morte della Vergine', riprodotta in due tableaux vivants e la vermeeriana 'Ragazza col turbante', sveltamente evocata dalla visione di Sarah, la sorellina undicenne di David). Un film che, pur non potendo vantare una forte originalità narrativa e un'implacabile progressione drammatica, si sorregge saldamente su uno sguardo tutt'altro che sciatto e pedestre. Commento musicale di controproducente pervasività.

Se il dolore è troppo, se le ferite dell’anima non smettono di sanguinare, allora impazzire è l’unica possibilità. La lapidaria affermazione suona come pietra angolare dell’esordio al lungometraggio di Gerald McMorrow, questo Franklyn che è oggetto peculiare, anche schizofrenico, e sfugge alla definizione di genere; film inglese, ma con interpreti francesi (Eva Green) e americani (Ryan Phillippe) oltre agli anglosassoni, spaccato nettamente in due livelli spazio-temporali: una City di oggi e la futuristica Meanwhile (Città di Mezzo), che della prima costituisce la degenerazione autoritaria. E’ un thriller fantascientifico che straripa in action movie puro e vanta picchi da dramma sentimentale – ogni dramma qui rappresentato lo è -, ma soprattutto un film sulla percezione interiore del tormento. Tutti i personaggi sono paurosamente infelici: in tal senso folli, perché già segnati da fatti precedenti alla messinscena, letteralmente “pazzi di dolore” (a causa di morti, violenze, abbandoni) e quindi, per pararsi dalle rispettive condizioni, impegnati a costruire barriere mentali rigorosamente alternative ai dati della realtà. Se la metropoli clericofascista è il più eloquente, infatti, non meno psichici sono i luoghi frequentati da Milo ed Emilia, l’amore immaginato e la lettura autodistruttiva dell’arte. Fissati i parametri del gioco, McMorrow, per governarlo doverosamente, sceglie un montaggio alternato molto lineare: opzione favorevole, dato che proprio la differenza netta nella costruzione delle sequenze (dalla scenografia alla fotografia) va a marcare materialmente l’abisso fra mondi con effetto cortocircuito. Dove il regista non centra il colpo, e con lui tutto il cast tecnico, è però nella complessiva originalità delle situazioni: queste, come impressione generale, sembrano sempre derivative, che siano esse declinate al presente o al futuro anteriore. A Londra si elaborano lutti sentimentali e si consumano duelli madre/figlia dovuti alla scomparsa di un padre, Meanwhile figura come dark city assediata dalle sentinelle di V per Vendetta, l’iconografia dell’antieroe è esteticamente vicina al Darkman di Raimi; la chiusa, che raggruppa i caratteri e li cuce insieme con una pallottola vagante, guarda a Iñarritu e lo riscrive in salsa sci-fi. L’altro freno a mano tirato, poi, coinvolge il settore scrittura: dalla voce off iniziale a certe ovvie costruzioni di senso (il protagonista, prima di impazzire, è stato in Iraq), a tratti il film rischia di esplicitare i suoi turbolenti moti interiori vanificandone l’impatto. Negli altri casi, quando si affida alle sole immagini, invece si lascia apprezzare pienamente: per esempio nella galleria di perversioni ottiche della Città di Mezzo, sorvegliata da giganteschi gargoyles a mani giunte; nelle apparizioni della donna dei sogni, pensata come novella Wendy (attenzione al look) per un Milo che respinge sistematicamente la crescita sentimentale; e ancora nel finale-metafora a ferite aperte, con ultima battuta inevitabile: “Stai sanguinando”.