Drammatico

FRANCESCA

TRAMA

Francesca, trentenne di Bucarest, confida al padre il desiderio di andare in Italia: ci sono problemi da risolvere, tra cui la situazione del fidanzato, Mita, assediato dai creditori.

RECENSIONI


Film d'apertura della sezione Orizzonti a Venezia 2009, Francesca guarda all'immigrazione come stato d'animo: non si compie l'atto migratorio, nel lavoro dell'esordiente Bobby Paunescu, che piuttosto inquadra i preparativi e l'impresa di tagliare il legame con la vita precedente. La protagonista, una sfolgorante Monica Birladeanu, è il film, che a sua volta è uno stato di transizione: il passaggio dal prima (Romania) al dopo (l'Italia), lo scioglimento dei conti sospesi per lasciare una condizione - l'abbandono della terra natale, ovvero il distacco dal "ventre" (metaforizzato dai confronti con i genitori) - ed entrare nell'altra che non offre riscontri, dato che è immaginata, sognata o temuta, ma infine resta fuori campo. In questa lettura spicca in controluce l'aspetto politico della questione: cittadini tutti europei, ma alcuni si riferiscono ad altri più ricchi in un reticolo di speranze e sospetti incrociati, mancando il dialogo, tracciando dunque una raffigurazione reciproca inevitabilmente stereotipata (gli italiani mangiatori di maccheroni). Il rapporto gerarchico ricchi/poveri, come sempre, è scandito dal denaro: e proprio i soldi si impongono in molte fasi, Francesca chiede un prestito al padrino, l'amico le offre i suoi risparmi, la ragazza insiste per pagare il debito del fidanzato, eccetera.
Paunescu, da parte sua, è all'evidente ricerca di realismo: si lancia nel meticoloso pedinamento della donna, che devia in alcuni focus su Mita per poi tornare alla base, comunque sempre relazionando le vicende del ragazzo alle conseguenze su di lei. Ancora una volta nel cinema rumeno (dopo il - giustamente - incensato 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu), a livello sostanziale, la citazione va a Jean-Pierre e Luc Dardenne: dal titolo personalizzante, il nome della donna protagonista (Francesca come Rosetta), alla storia "semplice" che si presta a una drammatizzazione piana e immediata, fino ai passaggi dove l'implicito esplode in singoli atti (il pianto è fondamentale, Francesca ne fa due: il secondo, torrenziale e disarmante, ricorda quello che chiude L'enfant), e si può continuare. Sul piano stilistico, invece, la distanza è notevole: la regia è appena corretta e cattura istanti di realtà solo a tratti affidandosi, in altri, a disegni più stereotipati come scorciatoia per arrivare al nocciolo, intasando il film di comprimari inutili (gli amici della ragazza, essenzialmente macchiette) o trapiantati da altri generi (i "piccoli gangster" che incalzano Mita). Poi c'è la pecca dell'esplicitazione che, quando arriva, pesa doppio perchè colpisce un impianto particolarmente rigoroso. In tal senso, su alcuni nodi centrali si preferisce dire che suggerire, vedi le battute sulla difficoltà di immigrare: non basta come alibi narrativo il fatto che i personaggi effettivamente ne parlino per quelle che sono, per la loro costruzione, sottolineature a uso del pubblico. All'autore resta nel carniere l'affresco principale, indubbiamente riuscito, prestato anche a varie letture simboliche (il percorso di Francesca - le tappe di una via crucis - martire dell'"unione europea" - vittima concreta dell'idea astratta di Immigrazione), il clima complessivo di determinismo non ultraterreno, ma fatto di carne e sangue, funestato da segni materiali (ancora i soldi); e soprattutto il finale nero che spezza sogno e film. Lontani i possibili riferimenti, sia i cineasti valloni che la pellicola di Mungiu: la politicità sotterranea, se viene spiegata, non emerge più dai gesti quotidiani.