Biografico, Documentario, Miniserie, Netflix, Recensione

FRAN LEBOWITZ – UNA VITA A NEW YORK

Titolo OriginalePretend It's a City
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2021
Durata7 episodi, 203'
Fotografia

TRAMA

Passeggiando tra le strade di New York, la scrittrice e umorista Fran Lebowitz racconta la sua città e la sua vita.

RECENSIONI

Impossibile non confrontarsi con un certo imbarazzo della scelta nell’introdurre Fran Lebowitz – Una vita a New York: la miniserie diretta da Martin Scorsese, aggiornamento in “netflixiana” pompa magna del doc Public Speaking del 2010, è un blob di freddure, boutade, provocazioni a marchio Lebowitz certificato talmente ricco e survoltato che letteralmente qualsiasi momento di uno qualunque dei sette episodi potrebbe fare al caso, fornendo un incipit adeguatamente ad effetto.
Dalla spocchiosa crociata filologica per avversare l’imperante dominio di vocaboli come  “wellness” e “lifestyle” all’invettiva contro una sempre più turistica Times Square, nel mare magnum di conversazioni - quelle ad hoc con Scorsese  e la sua ingombrantissima, prorompente risata, o di repertorio con Alec Baldwin e Toni Morrison e, ancora, con gli impavidi che dalla platea degli show rivolgono a Lebowitz delle domande - la (fu) scrittrice newyorkese si esprime su talmente tanti argomenti che sarebbe più facile, probabilmente, redigere un (breve) elenco di quelli scampati alla sua perfida arguzia. Lo sport, le arti e la loro gerarchizzazione; le sigarette elettroniche e la cancel culture; la gentrificazione di New York e il concetto di guilty pleasure sono infatti soltanto alcuni dei temi su cui questa intellettuale à la mode - che meglio di tutti, con redditizia autoironia, ha saputo cavalcare il proprio celebre blocco creativo - esplicita il proprio personalissimo parere («questo è esattamente ciò che ho sempre sognato: persone che chiedono la mia opinione, senza che sia consentito loro interrompere» commentava già ai tempi di Public Speaking), ribadendo il suo diritto di non render conto di niente a nessuno. In modo spesso gustosamente prevedibile, ma sorprendente a tratti: come quando una ragazza, dal pubblico, la interroga sul politicamente corretto, chiedendole se si stia correndo il rischio di «venirne soffocati». Ci si aspetterebbe una qualche battuta(ccia) tranchant, o un’altra buffa, improbabile crociata a misura di GIF, e invece no: «Dal canto mio, respiro benissimo» è la lapidaria, e serissima, risposta di Fran.

Ma Fran Lebowitz – Una vita a New York non è soltanto un monumento alla parzialità della sua protagonista («mi sembra che tu abbia quasi sempre ragione, ma che tu non sia mai giusta» diceva Toni Morrison all’amica, durante un talk confluito poi in Public Speaking), a un pensiero libero e libertino che, nella serie, assurge a vera e propria lente attraverso cui risoppesare le cose del mondo, quasi dietro la famosa montatura tartarugata degli occhiali indossati da Lebowitz ci fossero le lenti carpenteriane di Essi vivono… Al centro della scena, com’era lecito aspettarsi, c’è un’altra protagonista: la città di New York, inquadrata nel suo presente e raccontata nel suo passato, punzecchiata e celebrata. Nelle numerose scene di raccordo, sorta di “contrappunto topografico” al fiume di parole che scorre nel corso dei sette episodi, Fran Lebowitz la attraversa di gran lena da una parte all’altra, intabarrata nel suo cappotto di taglio maschile e ansiosa di lasciarsi la folla alle spalle,  fuori luogo come un pigro soprammobile d’epoca piazzato a casaccio dentro a una performante casa Ikea (che sia proprio questo l’involontario sgambetto del regista alla sua impavida musa?). I titoli delle puntate, che organizzano le conversazioni su base tematica - Affari culturali, Trasporti pubblici, Commissione stanziamenti etc... – somigliano ai nomi di altrettanti dipartimenti di una fantomatica amministrazione cittadina facente capo a Lebowitz (che non a caso, a un certo punto, s’immagina sindaco della metropoli), suggerendo così un’irrisolta equazione. Fran Lebowitz è New York? Fran Lebowitz era New York? E New York allora, oggi, cos’è? Un sogno, il ricordo di un’era trascorsa prima che le nostre vite si digitalizzassero, un pezzetto di cinema. Un plastico, vero e finto al tempo stesso, come quello custodito al Queens Museum su cui poggiano i piedi Martin e Fran.