Drammatico, Recensione

FOXTROT

Titolo OriginaleFoxtrot
NazioneIsraele/Germania/Francia/Svizzera
Anno Produzione2017
Durata113'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Michael e sua moglie Dafna sono distrutti quando degli ufficiali dell’esercito si presentano per informarli della morte del figlio Jonathan. Michael diventa presto insofferente alla presenza di parenti addolorati troppo assillanti e funzionari militari troppo zelanti. Mentre la moglie riposa sotto sedativi, Michael viene travolto da un vortice di rabbia e dolore per poi dover fare i conti con una di quelle svolte del destino tanto incomprensibili quanto le surreali esperienze militari del figlio.

RECENSIONI

Foxtrot, secondo lungometraggio di finzione per il regista israeliano Samuel Maoz dopo Lebanon, comincia con una soggettiva dal finestrino di un camion, in movimento, nel deserto. Una scena che genera ansia, che comunica dinamismo, ma che dobbiamo accantonare, dobbiamo attendere prima di poter cogliere, forse, il suo significato all'interno della narrazione. La scena si sposta ora in casa della famiglia Feldmann, dove vivono due coniugi anziani appartenenti a un ceto intellettuale medio-alto. Suona alla porta una delegazione dell'esercito giunta per notificare loro l'avvenuta morte del figlio militare sul campo di battaglia. La tragedia israeliana, di un popolo in guerra perenne, di uno stato che chiede ai suoi figli di immolarsi per la patria, anche a chi è contrario, anche a chi preferirebbe soluzioni diplomatiche. Il dramma di Michael e Dafna è quello di una nazione, un dramma paradigmatico, quello di una società di stampo occidentale benestante dove la morte incombe tra attentati e atti militari, quello che è stato vissuto da tanti genitori, tra cui anche lo scrittore pacifista David Grossman. Samuel Maoz ce lo sbatte in faccia, nella sua crudezza. Ma anche con un certo sarcasmo di fronte alle procedure formali dei militari, ai loro protocolli ferrei, a quella frase ipocrita continuamente ripetuta, come fosse un palliativo o un qualcosa di cui andare orgogliosi: "È caduto nell'adempimento del suo dovere". Formula che presuppone anche un'omertà nel rivelare le cause reali del decesso. Maoz gioca qui e altrove nel film sul fuori campo e sul predominio della staticità. Non vediamo il cadavere, ma anche ai genitori questa visione è preclusa e anche il funerale resterà in un'elissi.

La scena ora si sposta in un checkpoint dell'esercito in mezzo al deserto. Una truppa sperduta di soldati israeliani, svolge le sue mansioni di routine in questa terra di nessuno, unico avamposto di una lontana civiltà riconoscibile dal poster pubblicitario sbiadito e consunto sul camiocino di una bella ragazza che mangia il gelato, sogno di un qualcosa che è precluso a questi giovani, che non possono assaporare. Rappresentano un puntino in un paesaggio lunare desolato, che si estende all'orizzonte. Sono come reclusi in quella tana, dormono in un container dal pavimento inclinato che sprofonda nel fango. Ogni veicolo che devono controllare potrebbe essere un potenziale carico di terroristi ed esplosivo, ma in realtà si trovano a far alzare la sbarra più che altro a degli innocui dromedari. Qui Maoz vuole far scivolare il film nell'astrazione. Siamo dalle parti del teatro dell'assurdo, con i personaggi che aspettano qualcosa che non arriva mai. Siamo anche vicini al film No Man's Land di Danis Tanović, nel raccontare una situazione bellica di stallo. E in questo senso si giustica anche quel repentino cambio di registro, della danza dei soldati in mezzo al deserto. Surreale sarà anche quel passaggio dei ragazzi carini, ben vestiti, che si sbaciucchiano. Cosa ci fanno in mezzo al deserto? Ora  Samuel Maoz mette in scena un'altra situazione di drammatica attualità, quella del cosiddetto fuoco amico o come quella per intenderci che costò la vita a Nicola Calipari. Siamo all'interno di una guerra silenziosa, psicologica di nervi. I fili narrativi si ricollegheranno alla fine del film, ma rimarranno ancora dubbi e interrogativi.
Samuel Maoz confeziona un'opera che, nelle sue singole parti, potrebbe anche risultare interessante e visivamente intrigante. Ma la ricerca estetica, peraltro modesta, c'è tanto già visto, e la composizione narrativa a incastro non si amalgamano con l'intento di esprimere il dolore e l'inquietudine del popolo israeliano. Un film diretto semplice con una narrativa tradizionale e popolare risulterebbe più efficace in questo senso, ricordiamoci del cinema di Costa-Gavras. E ancor più maldestro il voler ammantare il tutto con la veste della tragedia classica. Se i classici, greci, latini, Shakespeare sono ancora attualissimi, è perché hanno saputo elevarsi dai loro contesti per creare situazioni e personaggi universali, per funzionare per archetipi. E questo con Foxtrot proprio non funziona.

Suona il campanello. La signora Feldman apre la porta di casa. Nel controcampo a noi negato i soldati messaggeri venuti per annunciarle la morte del figlio. La signora Feldman sviene e cade a terra svelando alle sue spalle un quadro: quadrati concentrici e aggressivi, rapsodici, nervosi tratti neri su tela bianca. Un quadro manifesto dello spazio mentale e non in cui i coniugi Feldman vengono catapultati all'annuncio della morte del figlio, un quadro visivamente richiamato più e più volte da continui simboli disseminati e integrati all'interno dell'abitazione, ora le mattonelle, ora il ferro battuto di una porta vetrata, ora i profili delle finestre.
La signora Feldman crolla in stato catatonico e viene sedata, mentre il marito, Michael, viene lasciato solo, con un bigliettino con su scritto un numero da chiamare se sente il bisogno di parlare con qualcuno e con il consiglio di sforzarsi di bere per non disidratarsi.
All'uscita dei messaggeri dall'appartamento una zenitale schiaccia e confina il signor Feldman nel suo soggiorno. Una zenitale più volte ripresa, come avverrà successivamente nella sepoltura dell'automobile o mentre Johnatan e i suoi commilitoni arrancano nel fango, immersi e impantanati nel loro ambiente, esattamente come Michael nel suo.
L'estensione del motivo pittorico e la zenitale sono due scelte visive estremamente forti, una scenografica, l'altra registica, che riassumono perfettamente l'approccio con cui Samuel Maoz sceglie di esercitare il suo controllo in una messa in scena che ingabbia i suoi personaggi, riflesso di una condizione emotiva che stanno vivendo e viceversa. In Foxtrot, Maoz tratta il lutto e la sua elaborazione, ma non solo.

Foxtrot, infatti, è un dramma tripartito.
Il primo atto è dedicato alla claustrofobia emotiva che i genitori vivono all'annuncio della morte del figlio, intrappolati in un'informazione che si rifiutano di accettare resa nel confinamento tra gli spazi chiusi, principalmente le mura domestiche, che non riescono ad abbandonare.
Il secondo, una volta svelato che Johnatan non è morto ma si tratta solo di un errore dettato da un caso di omonimia, si concentra sulla vita che il soldato conduce al posto di blocco a cui deve presenziare, una vita di noia e ripetitività, tra controlli sporadici e la solita carne in scatola, in guardiola in mezzo al nulla o rinchiuso nel container-dormitorio in continuo sprofondamento.
Il terzo torna ancora una volta nelle mura domestiche della famiglia Feldman, quando Michael e sua moglie sono nuovamente alle prese con il lutto del figlio, questa volta deceduto per davvero.

Lo stile rigoroso di Maoz è aderente e funzionale a tutte e tre le situazioni raccontate e viene meno solo nei due intermezzi transitori tra i tre atti. Il primo è lo stacchetto ballato del soldato Johnatan, vivace, a ritmo di musica. Il secondo è il manga animato, lettura a tutto schermo del diario illustrato di Johnatan.
Non è una contraddizione, bensì una manifestazione della contrapposizione tra il controllo e l'impossibilità a esercitarlo fino in fondo, uno degli argomenti cardine, forse addirittura fine ultimo del film stesso.
Ci sono due scene in Foxtrot in cui Michael e Johnatan, a chilometri di distanza l'uno dall'altro, osservano, il primo a occhio nudo, il secondo con un binocolo, uno stormo che migra. Michael e Johnatan osservano e non capiscono. Non possono capire. Non ne hanno il controllo. In quel mescolamento, in quell'imprevedibilità di movimento non c'è premeditazione, solo un flusso che non può essere pronosticato.
È in quei due momenti, speculari e mai sottolineati, che si può individuare la natura della vita racchiusa in Foxtrot, vista da Maoz come un onda che cambia direzione repentinamente.
Quei cambi di direzione rappresentano le svolte impronosticabili e le loro conseguenze, come lo sono l'imprevedibilità di un documento sfuggito di mano e caduto, di una lattina scambiata per una granata o del trovarsi un cammello in mezzo alla strada mentre si guida.
Il cammello più di tutti gli altri, immerso in una miriade di elementi tenuti sotto controllo, come il container che sprofonda lentamente, la strada costantemente sorvegliata, i documenti dei passanti ciclicamente verificati, è l'elemento che sfugge al controllo, il simbolo dell'incontrollabile.

È fatto di anticipazioni Foxtrot, di segni premonitori, ora rispettati, ora traditi, come la morte di Johnatan annunciata prima di quella effettiva o il ballo che dà il titolo al film e percepibile immediatamente come metafora e messaggio. Lo è anche il primo passaggio del cammello al posto di blocco, la cui comicità, in contrasto con quanto visto fino a quel momento, ne garantisce da un lato la memorabilità nello spettatore, dall'altro, vista la sua natura macchiettistica con lo scopo ben definito di smorzare per un attimo il tono e permettere allo spettatore di prendere una boccata d'aria, l'impossibilità di presagire il ruolo fondamentale che avrà in un secondo momento.
Alla fin fine Foxtrot è un film sull'ironia della sorte, la storia di un ragazzo morto tornando a casa in un rientro repentino preteso da un padre che non poteva più aspettare di rivedere suo figlio. Alla fin fine, indipendentemente da quali siano le azione compiute nella vita, due passi avanti e uno a lato, due passi indietro e uno nel lato opposto, esattamente come nel foxtrot, si torna sempre esattamente al punto di partenza.
Ora sì che si può tornare al punto di partenza, all'inquadratura iniziale, all'autoblinda che viaggia sulla strada e svelare la causa dell'incidente mortale che ha coinvolto Johnatan, di svelare che quel punto d'inizio, nonostante il percorso, nonostante le vicissitudini, era già scritto, era già il punto fine.