Biografico, Criminale, Recensione, Storico

FORTAPÀSC

TRAMA

Torre Annunziata 1985. Un giovane cronista del Mattino segue i fatti di nera, indaga sul voto di scambio tra mafia e politica, viene ucciso dalla camorra: il caso Giancarlo Siani.

RECENSIONI

Santo giornalista

Ancora e sempre Siani. Nel 2004 la sua morte è stata impaginata su pellicola con l’invisibile E io ti seguo, opera del filmmaker napoletano Maurizio Fiume. Fortapàsc condivide molto con questo film a partire dal titolo: in entrambi i casi, infatti, si vuole costruire il senso del discorso con una formula sintetica che entra nel concreto attraverso un percorso metaforico. Torre Annunziata è Fort Apache campana, il luogo dove resistere, esattamente come io ti seguo faceva luce sul vero ruolo del protagonista nel contesto partenopeo di metà anni ’80: in questa lettura Siani era un grimaldello, usato soprattutto dalle istituzioni – vedi la figura del magistrato nei due film -, per giustificare la propria impotenza e immobilismo nei confronti dello strapotere camorrista (“Vai avanti tu – diceva il rappresentante di una legge umiliata – e io ti seguo”). Anche il film di Marco Risi è oggetto civile consapevole, dunque, preso dalla necessità di “parlare chiaro” a livello estetico: così i camorristi che si ingozzano, sparano, ostentano sono crasse caricature di Scarface, il cronista ha gli occhiali, jeans e camicia, block-notes alla mano, il pianeta giornale è come te lo aspetti. La medesima evidenza è applicata alla scrittura dei dialoghi (avvertimenti a manetta: “Vai piano che alzi la polvere”) e soprattutto al settore figurato: per esempio il protagonista che cammina tra i rifiuti della spiaggia di Torre vuole sottolineare il contesto devastato, ma anche la condizione del rifiuto-Siani, ovvero l’impegno impossibile perché collettivamente respinto… Fortapàsc dice tutto e procede esplicitando a ogni livello, intavolando veri e propri schemi – il giornalista/impiegato contro il giornalista/giornalista – e provando a ravvivarli con un pacchetto tecnico particolarmente curato: si prenda la lunga ripresa che segue la bimba prima della strage di mafia, curiosamente simile all’incipit de La ragazza del lago, per realizzare il tentativo di spaccare la superficie della storia. Discorso a parte sul finale, che si riallaccia direttamente all’inizio in flash-forward: Siani che aspetta i carnefici, e accoglie l’esecuzione con una nota di malinconica serenità, configura l’omicidio come fine dell’attesa della morte e si iscrive ufficialmente nell’albo dei martiri[1]. Ovviamente impossibile prescindere dall’interpretazione centrale di Libero De Rienzo; De Rienzo che, se generalmente sostiene lo stereotipo con una sciolta prova di accademia, davanti agli snodi più drammatici sbanda tragicamente fino a sconfinare nell’inadeguatezza – il confronto con l’amico tossico è una scena madre strutturalmente sballata per tempi, modi e misura della caratterizzazione. Più (Mahieux) o meno (Fantastichini) accettabili i comprimari, con Valentina Lodovini in chiara declinazione erotica, soundratck ultrapop di Vasco Rossi. Respinta la definizione del co-sceneggiatore Andrea Purgatori: non è “una sorta di prequel di Gomorra” perché, semplicemente, preferisce la santificazione all’elaborazione. Missione compiuta.

[1] Con annesso segno di riconoscimento: la camicia bianca insanguinata come i lenzuoli che coprono le vittime della camorra.

Dopo quindici anni e luci della ribalta sempre più fioche sulla sua opera, Marco Risi (che dedica la pellicola al padre Dino) torna al cinema che sapeva fare meglio, quello civile-politico, crudo e violento, realistico e d’inchiesta (Mery per Sempre, Ragazzi Fuori, Il Muro di Gomma ma anche Il Branco). L’impalcatura è però traballante, come se gli altri generi frequentati nel frattempo avessero lasciato troppe scorie appese al suo (modo di fare) cinema, fra segni grotteschi (volontari e non), commedia popolare, stereotipi spettacolari. Si fatica, all’inizio, ad abituarsi all’incipit da Viale del Tramonto con Io narrante che recita, con voce impastata, “Fra 5 minuti sarò morto”; poi diventa arduo distinguere, nel disegno dei caratteri e di certe scene ilari, la cronaca dalla deformazione grottesca, l’impegno civile dall’intrattenimento commerciale (tutte le deviazioni della sceneggiatura sul poco interessante amore travagliato o sul rapporto di Siani con l’amico-collega drogato), la macchietta ricercata dall’inconsapevole sbavatura, come se il regista non fosse stato in grado di tenere il polso delle recitazioni e della verosimiglianza dei personaggi. Per fortuna il talento di Risi è sempre stato anche di “pancia”, di emozionanti crescendo nel resoconto tragico: riesce ad immergere nel racconto e a restituire il senso dell’operazione, cioè l’omaggio ad un vero giornalista che, paradossalmente, non lo era mai stato del tutto. Siani come voce isolata (protagonista anche di E Io ti Seguo di Maurizio Fiume, 2003) nell’omertà e nell’immobilismo, mosso da ingenuità o, forse, solo da fervore giovanile (gli autori non sanno o non vogliono dirlo). Citazioni (Le Mani sulla Città di Rosi: vedi i conflitti in consiglio comunale) e stilemi (anche troppi) del cinema d’inchiesta nostrano.