Drammatico

FOLLIA

Titolo OriginaleAsylum
NazioneGran Bretagna/Irlanda
Anno Produzione2005
Durata99'
Tratto dadall’omonimo romanzo di Patrick McGrath
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Stella, moglie di uno psichiatra, conosce, nell’istituto in cui vive col marito, Edgar, un artista affetto da gelosia psicotica che aveva ucciso la moglie anni prima. La loro passione sarà tragica.

RECENSIONI

Esce sui nostri schermi, con due anni di ritardo, l’adattamento di Asylum di Patrick McGrath, romanzo amatissimo (anche in Italia: è, con Le braci, uno dei salvagente della Adelphi editore), fortissimamente voluto da Natasha Richardson (qui anche in veste di produttrice) e, dopo la rinuncia di Jonathan Demme, diretto da MacKenzie (il pessimo Young Adam). Diciamola chiara: McGrath (Spider di Cronenberg e Grotesque di Davidson sono altre riduzioni per il grande schermo di sue opere) è un mediocre letterato che, a fronte della brutta scrittura e della banalità (pari solo alla presunzione) con la quale affronta le sue tematiche predilette (la psicologia da manualetto), oppone, a volte, un’indiscutibile abilità nel disseminare dubbi e azzardare ambiguità narrative, capacità di cui Asylum è ulteriore riprova. Quindi se la storia da un lato presenta una struttura evidente costituita dall’ambientazione (il manicomio e le sue facce: quella della patologia medica – i pazienti – e quella della patologia sociale – i medici e le loro famiglie -), dai personaggi (Stella, la moglie che si sottrae ai riti e alle convenzioni borghesi e sposa la follia amorosa; il marito che tenta di galleggiare nel mare delle regole per trarne profitto; Edgar, il paziente che infrange il confine tra le due facciate dell’istituto; Peter, l’occhio vigile sugli accadimenti – è la voce narrante del romanzo -) e dalle loro relazioni, dall’altro nasconde un secondo livello solo suggerito che è di fatto il motivo di vero fascino del romanzo e che è costituito, proprio come in Grotesque (che gioca molto bene su questo elemento e rimane l’opera migliore dell’autore), dal personaggio narrante. Chi narra le cose le racconta come vuole, omette strategicamente dettagli, sottintende, e, se gli torna utile, semplicemente mente e chi legge non può che attenersi a quel resoconto, tutt’al più tentare di scrutare tra le righe, supporre che ci sia dell’altro o che le cose stiano in maniera diversa. Il personaggio di Peter (nel film uno Ian McKellen che sul registro ambiguo procede con un’economia di espressioni magistrale) potrebbe essere dunque il fulcro e il vero burattinaio delle faccenda. A un livello più profondo infatti si può supporre la bisessualità del personaggio, un legame erotico con il paziente (il suo “preferito”) e la sua successiva relazione con Stella come soddisfazione di una doppia esigenza: quella di possedere la donna, da cui è indubbiamente attratto, e quella di avere a disposizione una carta da giocare per tenere in pugno Edgar, sottomettendolo al suo volere.
Lo sceneggiatore (il drammaturgo Patrick Marber, autore di Closer) sceglie di eliminare la voce narrante e di oggettivizzare il narrato, e, attraverso uno svolgimento quanto più possibile esaustivo dei motivi del romanzo, di far emergere gli elementi più oscuri e controversi della storia attraverso un dialogismo assai stilizzato e mai ammiccante. Ma, stanti questi lusinghieri tentativi, il film fallisce su ogni versante rivelandosi una pedante illustrazione degli eventi del libro, in rapida successione e senza approfondimento alcuno. Così, la prima parte, complice una regia di rara inerzia, si risolve in una sbrigativa presentazione dei caratteri e delle situazioni (a parte un azzardato montaggio incrociato sesso rubato - quotidianità), tendenza che si radicalizza nella seconda parte, laddove diventa evidente che l’attenzione di MacKenzie si concentra più sulle dinamiche relazionali che sulla loro sostanza emotiva, lasciando in inane trasparenza il tema della follia bohemienne vs la lucidità borghese e insistendo su un corrivo descrittivismo delle situazioni in cui si innestano altri personaggi (ambigui anch’essi: l’assistente di Edgar sembra porsi come lato di un ulteriore, forse solo suggerito, triangolo erotico). E’ evidente che in una storia di sentimenti, di passioni e di stravolgimenti emotivi tralasciare in questo modo il versante psicologico risulta fatale e l’impostazione quasi action (si fa per dire) pressoché suicida poiché tediosissima: peggiore del romanzo dal quale è tratta, la pellicola ne mette paradossalmente a nudo i limiti e il semplicismo (esattamente com’era avvenuto in Spider di Cronenberg); neanche per un attimo emerge la forza trascinante di un sentimento di cui i personaggi non dispongono ma che, al contrario, dispone di essi; così come non si evidenzia in alcun modo il crollo di tutte le resistenze, morali e sociali, della protagonista o il reale peso delle scelte che compie. Lo sceneggiatore rispetta il finale tragico (molte delle beghe del film, alla fine indipendente e britannico, sono legate alle imposizioni delle major americane che volevano edulcorare i toni e imporre un drastico happyend), cambiando solo le modalità del suicidio, ma il danno è già fatto. La Richardson, attrice altrimenti brava, è una (bella) statuina, Csokas è un Russel Crowe più raffinato, Hugh Bonneville convince, anche in forza di un personaggio (il marito) tra i meglio caratterizzati, la Parfitt marchia la pellicola con un paio di occhiate delle sue, Ian McKellen pare divertirsi un sacco. Beato lui.