TRAMA
Fiandre. Demester, un contadino che divide le sue giornate tra lavoro nei campi e fugaci accoppiamenti con la vicina di fattoria Barbe, riceve la cartolina per il fronte. Insieme a Mordac e Blondel, altri due ragazzi del posto, parte per la guerra in un paese lontano.
RECENSIONI
Lo spettatore è “pieno”, sceneggia, interpreta. Per stupirlo occorre “svuotarlo”. Il mio film cerca di lavorare il cuore dello spettatore, di modificare il suo sguardo.
C’è una violenza estetica implacabile nel cinema di Dumont, una bellezza atroce che raggela l’uomo e la natura in frame di impassibile splendore. Un rigore abrasivo, ostile, intransigente che sfida apertamente lo spettatore, lo priva di ogni supporto retorico e psicologico, lasciandolo in balia dell’opaca sontuosità delle immagini. È una sottrazione radicale che neutralizza i percorsi ovvi di costruzione del senso per rintracciarvi, al di sotto, un’intensità amorfa, primitiva, istintuale: la nascita del senso. Ed è proprio questo, più che la scabrosità o la ferocia degli eventi rappresentati, a contrariare il pubblico: privato del rassicurante manuale di lettura, lo spettatore si trova inerme e indifeso di fronte a immagini di una forza sconvolgente e scontrosa. Attori non professionisti, luce naturale, suono in presa diretta, cinema disadorno e frontale. Il fenomeno Dumont è tutto qui: nella potenza negativa di uno stile che rifiuta alteramente le moine spettacolari e “costruisce” orgogliosamente il suo linguaggio e il suo pubblico. Bruno Dumont è il Robert Bresson del cinema contemporaneo: ben venga l’incomprensione del grande pubblico, questo non fa che rafforzare l’amore che nutriamo nei confronti del suo lavoro. Quarto film del quarantottenne cineasta-filosofo francese, Flandres è una stupefacente cristallografia della natura - umana e non – praticata su suoli distinti: la Francia del Nord (le Fiandre del titolo, terra natale del regista) e un teatro di guerra imprecisato (Iraq, Afghanistan, Algeria?). La pellicola è divisa in tre parti: nella prima assistiamo alla quotidianità rurale di Demester, contadino ombroso e solitario che ha dei rapporti sessuali occasionali con Barbe, sua vicina di fattoria e amica d’infanzia. I due si accoppiano con una naturalezza spiccia, essenziale, apparentemente scevra di complicazioni sentimentali. Il loro è un agire secondo natura, uno sfogo elementare irrinunciabile. Dumont riprende il loro accoppiamento come un rito di fecondazione: Barbe è sdraiata al suolo, aperta, inerte, ricettiva; sopra Demester affonda la faccia nell’erba, cerca il contatto visivo e tattile col terreno, penetra la terra. Un rito ruvido e necessario. Con la stessa semplicità Barbe si concede ad altri, corpo tellurico da non far essiccare. Seconda parte: Demester, Mordac, e Blondel, quest’ultimo uno dei frequentatori di Barbe, sono catapultati nel cuore della guerra. Scontri a fuoco, esplosioni, agguati, esecuzioni sommarie: la panoplia bellica sembra monopolizzare la rappresentazione, eppure anche qui è la terra ad essere l’autentica protagonista. L’aridità fessurata delle trincee, la sabbiosa solarità del deserto e la ruvidezza minerale delle colline rappresentano l’autentico inferno terrestre, la sterile ostilità della natura: morte, mutilazione, annientamento. Oasi di salvezza? Barbaramente. Dumont essicca anche il formato dell’immagine, passando dal 35mm dilatato delle Fiandre al 16mm prosciugato del deserto (intuizione visiva di un’elementarità scardinante). Terza parte: a tornare a casa è soltanto Demester. Barbe è appena uscita dalla clinica psichiatrica dove era stata ricoverata per esaurimento nervoso, ma inspiegabilmente conosce la verità degli eventi. I racconti menzogneri che Demester rifila a France (la ragazza di uno dei suoi commilitoni) la fanno andare su tutte le furie. Barbe sa che lui sta mentendo, sa com’è morto Blondel, lo sa perché era accanto a lui quando è stato ucciso. Concretamente: era la terra. Brividi. Dumont è il solo cineasta contemporaneo che, come osserva magnificamente Jaques Mandelbaum su “Le Monde”, ha il coraggio di non filmare altro che “il mistero ambiguo della presenza”. Gran Premio della Giuria (presieduta da Wong Kar-wai) al 59° Festival di Cannes.
Le Fiandre sono un mistero per me. È la mia terra natale: viscerale, sensibile, irrazionale. La cinepresa diventa un microscopio, un apparecchio che scruta il soggetto: ho bisogno della terra per filmare gli esseri umani. Filmandole, le Fiandre restituiscono una parte dell’esistenza umana.