TRAMA
Carcere minorile. Daphne, detenuta per rapina, si innamora di Josh, anche lui giovane rapinatore. In carcere maschi e femmine non si possono incontrare, così la relazione di Daphne e Josh vive solo di sguardi da una cella all’altra, brevi conversazioni attraverso le sbarre e lettere clandestine.
RECENSIONI
Un motivo musicale dall’incedere innocente, quasi fiabesco, accompagna alcuni momenti chiave di Fiore, terzo lungometraggio di finzione del documentarista Claudio Giovannesi. Fra questi anche il bel finale, fatto di una fuga che più si fugge e più diventa una corsa, e poi un volo, e che incornicia perfettamente il senso di un’opera che, pur racchiusa in un ambiente molto specifico (le celle, i cortili e i corridoi di un carcere minorile), sembra scartare costantemente la possibilità di un commento sociale troppo puntuale, incluse le valutazioni etiche che ne deriverebbero. Fiore – che fin da titolo evoca incanto e fragilità, grazia e una bellezza pronta a sbocciare – decide di votarsi quasi esclusivamente allo studio di carattere, un’indagine che schiva sempre più le questioni contingenti per esplodere in un commovente inno all’amore disobbediente, all’amore disordinato, all’amore impulsivo. Pasolini e suoi ragazzi di vita, certo, ma soprattutto tanto e tanto Truffaut, attinto a piene mani, compresa una corsa lungo la riva del mare che è preludio di uno slancio, di un’ipotesi di futuro.
Claudio Giovannesi si dimostra regista dallo sguardo speciale. Non si limita ad osservare la protagonista, Daphne, ma respira al suo fianco, la abbraccia, la attende e la rincorre in un gesto cinematografico di grande partecipazione empatica e di convincente resa estetica. Sì, perché nessuno dei tratti caratteristici del cinema realista trova in Fiore un’applicazione di pedissequa maniera – pedinamenti e piani sequenza sono vissuti più che applicati. E lo sguardo incantato della camera di Giovannesi si posa senza sosta su Daphne Scoccia, incredibile attrice non professionista che rivela un’intuizione attoriale di immediatezza e profondità rare. L’accompagnano un Valerio Mastandrea contenuto e ispirato, e un cast di non professionisti gestito con grande mestiere. In ruoli minori, fa piacere notare la presenza coerente di interpreti che, incarnando piccoli grandi personaggi (proprio come lo è Daphne), hanno lasciato una traccia profonda nel recente cinema italiano e non: Francesca Riso, giovanissima protagonista de L’intervallo di Leonardo Di Costanzo; Aniello Arena, indimenticabile anti-eroe nel Reality di Matteo Garrone; Laura Vasiliu, co-protagonista nel miliare 4 mesi 3 settimane 2 giorni di Cristian Mungiu.
Cosa manca dunque a Fiore per diventare un’opera davvero importante – qualcosa in più del chiaro segnale di un talento che in potenza potrà dar tanto al giovane cinema italiano? Senza volersi macchiare di qualunquismo critico (la marcia funebre ricorrente per cui il problema del cinema italiano sono le sceneggiature), è proprio un’efficacia di scrittura che vada di pari passi con l’istinto registico dell’autore l’elemento che manca. Pur non mancando di affondi convincenti, soprattutto quando delinea i personaggi, il testo inciampa in dialoghi poco naturali che stridono con la spontaneità richiesta da soggetto e messa in scena. Inoltre, si avverte un vago schematismo narrativo e una seconda parte in cui il passo della narrazione rallenta e si confonde (salvo poi riscattarsi nella bella impennata finale).
Celebriamo Fiore, perché è bello e profuma di buono. Coltiviamolo anche, perché ci aspettiamo tanto dalla prossima prova registica di Giovannesi.
