Drammatico, Recensione, Thriller

FINO ALL’ULTIMO INDIZIO

Titolo OriginaleThe Little Things
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2021
Durata128'
Sceneggiatura
Montaggio

TRAMA

Il Vice Sceriffo della Kern County, Joe “Deke” Deacon viene mandato a Los Angeles per quello che doveva essere un veloce incarico di raccolta di prove. Al contrario, si trova coinvolto nella caccia al killer che sta terrorizzando la città. A guidare l’indagine, il Sergente Jim Baxter che, colpito dall’istinto di Deke, richiede il suo aiuto non ufficiale. Ma mentre danno la caccia al killer, Baxter ignora che l’indagine sta riportando a galla alcune situazioni vissute in passato da Deke, svelando segreti scomodi che potrebbero mettere a repentaglio molto più che il suo caso.

RECENSIONI

Due importanti thriller degli anni ’90 rivoluzionano il consueto percorso di caccia al serial killer: Il silenzio degli innocenti prima e Seven poi. Determinante, infatti, non diventa tanto l’identità dell’assassino, già nota a metà film, quanto la capacità dell’indagine di fare emergere i lati oscuri dei presunti “buoni”, meno solidi di quel che il loro ruolo indurrebbe a pensare e molto umani nel cedere alla fascinazione del male. È proprio in quegli anni che John Lee Hancock scrive la sceneggiatura di Fino all’ultimo indizio (e anche di Un mondo perfetto, altro film dove bene e male si intrecciano). Un copione che, come spesso accade, gira per parecchie mani (tra cui Steven Spielberg, Clint Eastwood e Warren Beatty) senza però tradursi in immagini. Fino a oggi, in cui a dirigerlo è lo stesso Hancock. In trent’anni tante cose sono accadute, Hancock è diventato un regista di successo (The Blind Side e Saving Mr. Banks, ma anche The Founder e Highwaymen), le tendenze anni ’90 sono state rivisitate (vedi, tra gli altri, Zodiac e in ambito seriale True Detective) e il film arriva con poco da aggiungere al noto. Il punto debole dell’opera, però, non è certo questo, anzi, la capacità di ricreare visivamente e nei contenuti una certa atmosfera ninety è forse l’aspetto più interessante. Il problema di fondo è che tutto ciò non si traduce in un impasto cinematografico in grado di insinuarsi sottopelle, ma resta come imploso.

Le intenzioni di una contaminazione tra ossessioni personali e indagine giudiziaria rimangono infatti tali. Le cause sono da attribuire principalmente a una sceneggiatura che non caratterizza a dovere i personaggi, ma si limita a farli interagire e in una gestione di tempi e spazi che non mette mai a tacere i tanti interrogativi che quell’interagire fa sorgere. L’atmosfera sospesa diventa quindi un contorno, anche piacevole, dentro cui si rincorrono verità, orrori e consapevolezze che però restano sempre in superficie. Solo in parte complice il cast. Se Denzel Washington appesantito fa quello che ci si aspetta da Denzel Washington appesantito, Rami Malek sembra invece completamente scollato dal personaggio che interpreta e ogni sua espressione, insistita tra l’altro, stride e dice altro rispetto a ciò che la sceneggiatura reclama. Il migliore in scena è Jared Leto che, come da abitudine con trucco e parrucco ma meno overacting del solito, insinua in poche sequenze l’inquietudine. Ma la paranoia, il sospetto, i tanti non detti, la deriva umana, i tormenti, il gap generazionale tra i due protagonisti, l’impossibilità di mettere a tacere il passato, l’abisso in cui cadono tutti i personaggi, le “piccole cose” del titolo originale, anche il finale che si vorrebbe ad affetto, arrivano privi di premesse e sviluppi in grado di renderli plausibili e finiscono per scivolare addosso. Come il film, la sua cupezza e gli anni che evoca.