Drammatico

FINE PENA MAI

TRAMA

Il percorso umano di Antonio Perrone, dal sogno di una vita “al massimo” fino all’ingresso nella Sacra Corona Unita, all’arresto e alla condanna a cinquant’anni.

RECENSIONI

Ingannevole è il titolo più di ogni cosa. Se pensate che Fine pena mai sia un film sulla condizione di un ergastolano vi sbagliate, non è così. Innanzitutto perché la pena del nostro protagonista, Antonio, è a tempo determinato e in secondo luogo perché oggetto del racconto è più che altro il suo percorso di iniziazione mafiosa, narrato in flashback sotto forma di lettera alla moglie.
Lo sviluppo narrativo procede secondo i passaggi più ovvi e il ritmo si sfilaccia via via: si parte dai sogni giovanili, passando per i primi tentativi di gestire un traffico di droga in proprio, per arrivare all'ingresso nella Sacra Corona Unita. In questo ennesimo racconto di mafia, possiamo riconoscere tanti volti, tante "maschere" già viste: il ragazzo ambizioso, la fidanzata che prima si oppone ai suoi progetti criminali e poi cede, i diversi sgherri-ragazzini più o meno capaci. I registi raccolgono le carte di una partita già giocata e ce le ripresentano senza nemmeno mischiarle. Tentano di svecchiare l'operazione intersecando due piani temporali e ponendo in sincronia prospettica momenti diversi e opposti di una vita - la frenetica ricerca di successo nel passato e la desolazione del carcere nel presente, immobile per l’eternità - opposizione che si riflette nel montaggio, rapido e ricco di stacchi nel primo caso, lento e fatto di piani sequenza nel secondo. Il contrasto tuttavia risulta assolutamente squilibrato e la condizione di quasi-ergastolano del protagonista viene liquidata con qualche bella immagine e poche frasi retoriche. Oltre a questo la narrazione presenta vuoti e incongruenze: dalla ragazza che in alcuni momenti sembra integrarsi perfettamente nell'ambiente malavitoso e in altri rivendica per sé il ruolo di moralista, al suicidio di Gianfranco e al presunto tradimento di Daniele.
Si apprezzano però alcune scelte che testimoniano una certa attenzione all’aspetto fotografico dell'immagine, come la graduale desaturazione del colore che accompagna il precipitare dei personaggi nel baratro della criminalità organizzata, o il rispetto dell’armonia compositiva e della prospettiva nella costruzione delle inquadrature. Sono poi abbastanza frequenti stimoli creativi resi però in maniera non adeguata, in particolare il tentativo di ricollegarsi a un sostrato popolare profondo, a quel senso mistico-carnale che continua a resistere, nel bene e nel male, sotto le apparenze di modernità, nelle regioni del Sud. Vanno in questo senso i colori bui del rito di iniziazione, i volti grotteschi e deformati dei mafiosi e quell'accenno di processione sacra, tutte immagini forti sul piano visivo, ma che non trovano una collocazione adeguata nella struttura dell’opera, limitandosi a essere occasioni evanescenti. In un certo senso si può riconoscere nel film un'occasione mancata: non si è riuscito, infatti, ad affidare il racconto alla componente visiva e le immagini sono sempre accompagnate da un commento vocale o dialogico che assolve una funzione esplicativa il più delle volte del tutto superflua.
Sottolineiamo infine altri due aspetti: in primo luogo una massiccia presenza di citazioni che qualche volta sono di troppo – i fiori di American beauty, la macchina di Arancia meccanica, le strisce sull'asfalto di Strade perdute e la nuotata sott’acqua de L’Atalante – e in secondo luogo la forte influenza di una fotografia di marca televisiva – fastidioso uso del ralenti, immagini ipercontrastate – in particolare nelle scene d'azione.
Non sono poi d'aiuto alla riuscita generale del film gli interpreti, talmente poco brillanti da risultare in alcuni momenti (involontariamente) comici.