Giunto alla sesta edizione, il Festival di Roma si presenta all’insegna della decadenza. Duramente colpita dalla crisi, falcidiata dai tagli alla cultura, al centro della polemica politica, a conti fatti la kermesse inaugurata nel 2006 non è mai decollata: oltre i fattori extracinematografici il punto principale resta – inevitabilmente – l’assenza di personalità. Non che nella capitale siano mancati i grandi cineasti: nel corso degli anni abbiamo visto Coppola (Un’altra giovinezza), Greenaway (Rembrandt j’accuse) Assayas (L’heure d’été e Carlos), Fincher (The Social Network) solo per dirne alcuni. Mai, invece, si è intravista un’idea di festival chiara e coerente. Roma ha preferito collocarsi a metà del guado: tra Venezia e Torino, tra la passerella e la manifestazione competitiva, tra omaggi/retrospettive e l’ansia di novità, tra l’ambizione generalista e le sezioni ghetto (Alice nella città per bambini, L’altro cinema – Extra per gli esperimenti).
Quest'anno non aiutano le difficoltà organizzative, confessate dalla stessa squadra dell'auditorium: un programma davvero evanescente, che principalmente si perde nella medietà e nelle meteore da altri festival; un concorso claudicante che buca l'intento principale, il più logico, lanciare nuovi talenti (la maggioranza dei film premiati nel sessennio non è mai uscito); altalenante anche la sezione Extra diretta da Mario Sesti, che resta comunque la migliore per la ricerca di opere rischiose, fuori dalle solite logiche. Se gli organizzatori ostentano ottimismo sui biglietti (sono in crescita, dicono) devono ammettere il calo degli accreditati, confermando lo scenario già evidente in settimana: registi e attori che non partecipano al festival, sale mai piene, pubblico spaesato nei corridoi che – programma alla mano – tenta di decifrare l'offerta.
Per questi e altri motivi l’impressione è quella del capolinea. Il prossimo futuro ci dirà se qualcuno saprà reinventare questo festival, animandolo con idee che ci sarebbero pure (l’abolizione del concorso? la riconversione in gigantesca retrospettiva?) e con un’impostazione precisa e peculiare; altrimenti resta solo la seconda ipotesi, ormai da menzionare senza imbarazzi, la fine della corsa.
_x000D_In questo quadro difficile, ovviamente, si sono evidenziati pochi titoli di valore di cui diamo conto nel nostro reportage._x000D_
_x000D_
_x000D_I migliori:
_x000D_
_x000D_1) Une vie meilleure – Cédric Kahn
_x000D_2) North Sea Texas – Bavo Defurne
_x000D_3) Babycall – Pål Sletaune