Animazione

FINAL FANTASY

Titolo OriginaleFinal Fantasy: The Spirits Within
NazioneGiappone/U.S.A.
Anno Produzione2000
Durata106'
Scenografia

TRAMA

Pianeta Terra anno 2065: a seguito dell’impatto con un meteorite, la terra è stata invasa da legioni di spettrali creature (i “phantom”) che costringono i pochi umani sopravvissuti a vivere in città protette da enormi calotte di energia. Si cerca una soluzione al problema: Hein (comandante militare della confederazione planetaria delle città “schermate”) è convinto che la minaccia aliena può essere annientata con l’uso dell’enorme cannone laser “Zeus”, mentre il Dottor Sid e la Dottoressa Aki sono convinti che l’uso del cannone danneggerebbe irrimediabilmente la forza vitale della Terra stessa e propongono una “fantasyosa” alternativa…

RECENSIONI

Fine della fantasia o fantasioso inizio?

Final Fantasy: the spirits within è stato accolto come un film a suo modo storico, è infatti la prima volta che viene prodotta una pellicola con protagonisti “umani” ricorrendo esclusivamente alla computer grafica. L’idea di questo passo decisivo (che decisivo forse non è…) è venuta a Mr. Hironobu Sakaguchi, creatore della saga videoludica Final Fantasy (giunta ormai al decimo capitolo), il quale ha deciso di trasportare l’atmosfera e l’estetica delle sue produzioni interattive nel mondo della celluloide. Operazione ambiziosa, certo, costosa, non c’è dubbio, ma altrettanto fallimentare, più o meno da qualunque punto di vista la si voglia osservare e giudicare. Cominciamo dalla storia: malriuscita macedonia di science fiction vagamente new age, ambientata nel solito mondo post-qualcosa (qui il “qualcosa” è l’impatto con un meteorite alieno) dove i soliti pochi sopravvissuti tentano di salvare il salvabile. La delusione per tutti è assicurata: i fans del videogioco troveranno non solo debolissimi riferimenti alle complicate trame che sono soliti vivere (e amare) joypad alla mano, ma nondimeno si accorgeranno che un tipo di narrazione perfettamente funzionale alla progressione di un gioco del quale si è protagonisti diventa indigeribile, una volta tolto l’elemento interattività; i “generici” appassionati di fantascienza, dal canto loro, faranno bene a lamentarsi della assoluta mancanza di originalità del prodotto, dell’ormai stanca ripetizione iconografica-visiva delle arcinote atmosfere bladerunneriane, dell’incedere pachidermico di una narrazione per nulla fluida e lineare, di una poco nutrita schiera di personaggi da fiera dello stereotipo (lo scienziato saggio, il militare ottuso ecc ecc), di dialoghi al limite del fantaridicolo involontario. Davvero pessimo, infatti, è stato il lavoro svolto dagli sceneggiatori, che non sono riusciti né a dare un minimo di verve al debole e risaputo spunto iniziale, né a infondere una qualsivoglia forma di vita ad asettici personaggi col peccato tecnic-originale della freddezza digitalizzata. Già, perché è proprio la “tecnica” l’elemento fondante e caratterizzante di Final Fantasy, tecnica che merita di essere affrontata da due punti di vista distinti ma non distanti: uno squisitamente… ”tecnico”, l’altro probabilmente “etico”. Dal pdv tecnico-tecnico (mi si perdoni la ripetizione tautologica) non c’è da lamentarsi, ma neanche da gioire incondizionatamente; fondali, astronavi, elementi hi-tech e creature (i fantomatici “phantoms”) sono ottimi ma nulla aggiungono a quanto deja vu in anni di perfezionamento della computer grafica e della sua applicazione/contaminazione cinematografica. E’ invece la vera “novità”, l’elemento umano-non umano, a destare qualche dubbio… certo, l’utilizzo del motion capture conferisce (appena) sufficiente realismo e fluidità ai movimenti dei personaggi, ma l’impatto emozionale dei volti, la gamma di espressioni disponibili, la capacità di modulare e trasmettere stati d’animo da parte di Aki e soci, sembrano ancora ad uno stadio evolutivo piuttosto “primitivo”, se si considera il fotorealismo assoluto l’obiettivo da raggiungere e il drastico ridimensionamento di (f)attori umani il destino del “cinema del futuro”. Se. Perché se è davvero questa la (volontaria) direzione del primo passo di Sakaguchi, non solo il passo è incerto, ma l’etica stessa del passo è opinabile: non è riduttivo e mortificante utilizzare tecniche ultramoderne e costosissime per raggiungere un risultato (il realismo “umano” sullo schermo) che abbiamo già fin dalla nascita del cinema? Ha davvero senso (e se sì quale?) l’avvicinamento asintotico alla perfetta produzione (digitale) umanoide quando la ri-produzione (fotocinematografica) umana è già così semplice, convincente, consolidata, perfezionata? Se è vero come è vero che stiamo passando da “l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, per dirla col grande Benjamin, all’opera d’arte nell’epoca della sua producibilità tecnologica, beh, allora Final Fantasy rappresenta forse un paradossale passo indietro nella progressiva emancipazione creativa concessa dalla libera generazione digitale-computerizzata delle immagini. Se. Se e Forse. Perché forse conviene concedere a Sakaguchi il beneficio del dubbio, forse lui non voleva che i suoi personaggi virtuali apparissero come perfetti simulacri di personaggi reali ma li voleva così, orgogliosamente falsi, così lontani eppure così vicini alla carne, alle ossa e al sangue. Allora Aki, il Dr. Sid, Hein non sarebbero che gli antenati di un cinema “altro” che ancora non c’è, protoprotagonisti di un mondo filmico a venire parallelo, alternativo ma non sostitutivo di quello “tradizionale”… un primo balbettio verso il grande boh. Certo è che se il buon giorno si vede dal mattino, il mattino di Final Fantasy minaccia temporali…

Hi-tech e spirito

Con una scelta più radicale di Tomb Raider (dal vero) e all'avanguardia rispetto al Titan A.E. di Don Bluth (fantascienza a disegni "classici"), l'estetica animata della Playstation sbarca sul grande schermo, sfoggiando attori sintetici che potrebbero rivoluzionare il modus operandi del cinema: Sakaguchi, l'ideatore (nel 1987) del videogioco cui l'opera s'ispira, non ha scritturato Sandra Bullock o Ben Affleck (che i due protagonisti ricordano) per farli interagire con le meraviglie dell'animazione al computer. Da regista-demiurgo-platonico, ha disegnato anche gli "interpreti", immergendoli in chiaroscuri e giochi di luce che ne esaltano il realismo, in quanto capaci di nascondere e al contempo mostrare le "imperfezioni" (quelle rivelatrici della loro natura digitale e quelle che, al contrario, li rendono "umani": vedi i dettagli della pelle). Le loro movenze sono impeccabili (realizzate con un software che replica quelle di attori in carne e ossa), e non è arduo dimenticare che si sta visionando un "cartone animato" e non un fantahorror colmo di effetti speciali che citano John Carpenter (l'apocalisse di 1997: Fuga da New York) o Ridley Scott (la caccia di Alien). A parte la sorpresa da primo impatto con una "realtà" diversa (l'animazione digitale totalizzante) però, l'arte della "rappresentazione", qualsiasi medium o strumento la partorisca, non può prescindere dalla drammaturgia, dal racconto ed il modo di raccontare. Sakaguchi non delude: ha fantasia da vendere e, riallacciandosi alla tradizione dei manga che inseguono l'hi-tech per rimarcare l'importanza dello spirito, affascina con un soggetto d'azione, suspense e filosofia orientale, catechizzando l'empatia con tutta la materia dell'universo, "viva" solo per il fatto di esistere. Non è da sottovalutare la complessa strategia dell'autore per dare corpo e anima alle sue creature: per la "materia" s'è servito dei progressi della tecnologia, per lo "spirito" ha operato a livello di racconto e messaggio spirituale. Se tutto quello che ci circonda possiede un soffio vitale, anche Aki Ross e compagni, "fantasmi" o meno che siano, "sono". Una saga complessa ed intrigante al punto giusto, fra comunicazioni oniriche, spettri alieni tormentati che rubano le anime, energie vitali dei pianeti in lotta e (ancora) la fobia della bomba atomica su Hiroshima (il cannone "Zeus", simbolo della follia distruttrice dell'uomo). Peccato per una parte finale più confusa, tirata via nei dialoghi e con un afflato "new age" eccessivo.