TRAMA
Alex deve partire con i compagni di classe per Parigi, ma poco prima del decollo ha un’inquietante visione…
RECENSIONI
Non siamo altro che destino
L'anonimo titolo (per fortuna non tradotto nell'ancor piu' banale "Destinazione finale") nasconde un discreto horror soprannaturale, in grado di incollare allo schermo per tutta la sua durata.
Si parla di premonizioni, dell'ineluttabilita' del destino e del tentativo di modificare la propria sorte. Chi non ha mai pensato all'improbabilita' di alcune coincidenze senza ipotizzare un disegno sotteso, in grado di fare accadere le cose? E il film parla di questo, attraverso il difficile percorso di un giovane che, grazie ad una visione, riesce a modificare il proprio destino.
Dopo un incipit di grande impatto emotivo, il film pare indeciso sul genere da intraprendere: dramma familiare, horror, fantascienza, commedia per teen-ager, e con una certa abilita' li attraversa tutti, riuscendo quasi sempre a spiazzare lo spettatore. Il rischio, solo in parte superato, e' di assottigliare le psicologie, ma il cinico gioco in cui incappano i protagonisti non manca di fascino e della capacita' di coinvolgere. Peccato per qualche caduta narrativa (l'incontro con il misterioso nero al cimitero che non scuote minimamente i protagonisti) e per i cliche' in cui possono essere riassunti i personaggi. A parte il protagonista, piu' sfumato e ben interpretato da un promettente Dewon Sawa.
Cassiamo Cassandra
Effettistica e grossolana come i trucchi visivi e sonori nella sequenza d'apertura, l'opera prima dello sceneggiatore di "X-files" non passa la dogana perché priva di carta d'identità: solito, stupido teen/horror-movie o pretestuoso gioco cinefilo (i cognomi: Browning, Hitchcock, Murnau, Dreyer, Chaney) che pondera sul rapporto dei viventi con la morte (le manie di onnipotenza dei giovani in cerca di adrenalina). L'idea di partenza è buona, mescola il mito di Cassandra (prediceva il futuro e nessuno le credeva) con Il Settimo Sigillo (la partita a scacchi con la Morte), ma la realizzazione è avvilente nel momento in cui riduce il tutto ad uno "slasher" (importa solo il conto alla rovescia delle vittime) in cui la sceneggiatura dilata le scene fino alla noia, affittando i dialoghi e le battute da centinaia di film del genere. Wong non è Shyamalan (Il Sesto Senso): vorrebbe creare tensione con segni premonitori, inquietanti presenze, presagi e fenomeni paranormali, ma non sa far altro che antropomorfizzare la morte in un Candyman, in fruscii di veli neri, in un soffio freddo e incidenti pilotati. L'oltremodo lungo prologo, ad esempio, troverebbe giustificazione solo nel tentativo di dare un'anima ai personaggi e al senso del pericolo: i risultati raggiunti da Wong gli promettono una destinazione finale per le sitcom televisive. Per non parlare della credibilità dei moti umani: dolore per le perdite? Paura d'essere le prossime vittime? Amore fra la bella "prima-ero-inguardabile-ora-ti-amo-e-sono-irresistibile" e il veggente? William Castle, persino Sean S. Cunningham (Venerdì 13), avrebbero saputo fare di meglio. Come nel peggiore episodio di Dylan Dog, c'è almeno una gag degna di questo nome (la bionda falciata dal bus) e la tensione orchestrata negli incidenti finali ha la sua attrattiva. Ringraziamo Wong anche per averci insegnato che John Denver porta sfiga (ogni volta che suona una sua canzone...) e che il rumore di un ventilatore che "russa" può incutere timore (ridicolo).