Da uno speciale del genere, non c’è da aspettarsi niente di buono. Il duplice, folle nucleo della questione è: -1 eleggere il “film del decennio” (nientepopodimeno) e -2 (auto)celebrare il decennio spietato. Riguardo al primo punto, anche tra i minerali c’è ormai la consapevolezza che ovunque si vada a stilare una classifica del tipo best of… ci si avventura in un ginepraio minato dal quale non si esce integri. Il perché è complesso quanto evidente, eviterò dunque di scendere nei particolari, basti accennare al fatto che la posta in gioco è di tipo pesantemente estetico in senso alto e che tira in ballo domandine tipo “cos’è il bello?” o simili. Riguardo all’autocelebrazione, che dire, trattasi per l’appunto di autocelebrazione, e basta consultare un imparziale vocabolario per capire quanto l’idea sia malsana. Eppure. Eppure forse vale la pena dare un senso a questa cosa, anche se questa cosa un senso non ce l’ha (sì, ho parafrasato Rossi Vasco e non riuscirò mai a perdonarmelo). Perché, si diceva, sono dieci anni che siamo online. E qualcosa andava pur fatto. Tagliando la testa al toro, con l’agile understatement che da sempre ci contraddistingue, chiariamo subito che l’altisonante titolo “il film del decennio” è da riferirsi alla soggettività, insindacabile quanto splendidamente inutile, di ognuno di noi spietati redattori e che l’autocelebrazione trattasi piuttosto di un modesto, maturo e consapevole “cin cin” tra amici, al grido di: – signori, è stato un onore e un privilegio scrivere al vostro fianco -.
Il film del decennio è Mulholland Drive di David Lynch, quel David Lynch che lo marchia a fuoco con una doppietta da chiusura di ogni discorso (MD e INLAND EMPIRE). Mulholland Drive perché è il film che, più di tutti, è riuscito a segnare questi dieci anni e ad influenzarli (quante proliferazioni ha determinato? Un’infinità). Mulholland Drive quale film artistico che colpisce, abbaglia, appassiona tutti, lynchiani e non, e lo fa a prescindere dalla comprensione del suo senso ultimo. Mulholland Drive compie il miracolo di condurre un pubblico nutrito al cinema puro senza imbrigliarlo alla trama, ma solo ed esclusivamente in virtù del suo potenziale suggestivo, con la forza delle sue immagini, facendo leva sul mistero propriamente detto, senza furbizie, senza mediazioni. Mulholland Drive immerge la rappresentazione nell’intimità psicologica del pubblico. Mulholland Drive piega il genere che frequenta, il noir, a veicolo di un disagio che scandaglia anfratti interiori del tutto inesplorati. Mulholland Drive, in definitiva, gioca la sua partita più importante nel campo più ostico, l’inconscio dello spettatore, e vince nonostante questo. Proprio per questo.
INLAND EMPIRE, come l’opera avanguardistica che è, il miracolo dell’ecumenismo cinefilo non lo compie e si attesta come film seminale che apre il capitolo nuovo che sfoglieremo negli anni a venire.
Per motivi in parte simili escluderei dalla classifica la meravigliosa trilogia Le valigie di Tulse Luper di Peter Greenaway; opera monumentale, il più grosso rimosso critico del decennio che si chiude, riassume tutta la produzione del suo autore, l’intera concezione della sua opera, ed è un film che non rappesenta la sua epoca, rinvenendosi le sue radici negli anni 70, il progetto distendendosi comodamente nei decenni seguenti, ricomprendendoli tutti, infine affacciandosi all’attuale (le sue tracce le vediamo già: si ritornerà a questo film come a un modello, critici mea culpa – sempre vigliaccamente impliciti – segneranno i prossimi anni, me lo sento); scelgo allora Nightwatching che, nel suo compromissorio porsi a metà strada tra il Greenaway che fu e quello che è, si afferma come riflessione profondissima sull’arte del rappresentare visivamente, saggio in sé compiuto che arriva al momento giusto: film che non ha visto la luce in Italia, che pochi conoscono, che non ha vinto festival, che tutto sommato è passato abbastanza inosservato, ma cosa importa?
Il cinema francofono si impone: in questi anni è stato quello più vitale, innovativo, spregiudicato, effervescente, il più aperto al genere, il meno codificato, normale dargli lo spazio che merita. Dalla filosofia cinematografica di Dumont, all’inquieta magistralità di Assayas (impossibile non menzionare quello che è il suo capolavoro, per quanto non uscito in Italia: I destini sentimentali è uno dei film più sottovalutati degli ultimi anni, preferirgli il bellissimo Clean, solo per questioni distributive, mi sembrava assurdo), al Grande Ibrido di Arnaud Desplechin, passando per Ozon, il più prolifico e del quale sarebbe da prendere l’intero pacchetto (Sotto la sabbia è da leggersi come scelta simbolica). Agli autori in classifica se ne aggiungono tantissimi altri: Honoré, Jeunet, Philibert, Lifshitz, Bonello, accanto ai grandi vecchi (il supremo Godard /Eloge d’amour, l’infaticabile Chabrol/Grazie per la cioccolata, la divinità Resnais/Cuori, Rohmer/La nobildonna e il duca, Garrel etc e a tutti gli esponenti della nouvelle trouille. Irreversible di Noé l’ho rivisto un paio di volte e, per quanto sia lontano dall’amarlo, è un film che oggi rispetto molto di più: non mi rimprovero la sostanza (nervosa) della mia recensione, ma il tono irridente sì. Ma tutti abbiamo uno stomaco e il mio ha parlato moltissimo in questo decennio.
Il cinema americano ci consegna una nuova generazione di registi che mettono spudoratamente i loro mondi in celluloide: i “letterari” Wes Anderson, Noah Baumbach (Il calamaro e la balena), Todd Solondz, il veterano Hal Hartley (Fay Grim), Mike Mills (Thumbsucker), i “visivi” Jannings, Aronofsky, Jonze, Fincher che tituba, l’infiltrato Gondry, Kaufman (lo sceneggiatore, poi regista, che il cinema aspettava da tempo). E Todd Haynes (Lontano dal paradiso). E James Gray. Di Wes Anderson scelgo I Tenenbaum, film che in prima visione non mi folgorò (troppo pieno, troppo convulso: le cose vanno riviste, perdio), ma che in seguito a un’accidentale re-visione casalinga è diventato un mio indelebile classico, ripassato fino alla nausea, amato, idolatrato quasi: quel prologo che culmina col volo del falco Mordecai mentre Hey Jude di sottofondo giunge al coro finale non è solo l’epitome del cinema andersoniano, è un momento che rimane di questi anni in celluloide. I Tenenbaum anche come sintesi e sublimazione della famiglia come grande scenario, sostanza, chiave del cinema indipendente americano (per tutti The Savage della Jenkins).
Eternal sunshine è un film imprescindibile, l’incontro di due menti diversamente geniali (Gondry e Kaufman), il miracolo dell’equilibrio tra commedia e dramma, mondo reale e virtuale, passato e modernità, arte e artigianato: passa il tempo e questo film, esattamente come Mulholland Drive, si insedia nel cammino di ogni cinefilo come tappa imprescindibile, diventa, semplicemente, Storia.
Non ho ricompreso Mann (Miami Vice), che un’ideale classifica annovererebbe di necessità, ma solo per mancanza di spazio. Non dimenticando i teoremi perfetti di David Mamet (Spartan: in alto i nostri cuori).
Tarantino è un maestro e lo sa.
Il blockbuster del decennio per me rimane il ciclo di Matrix (il primo capitolo è del 1999, vabbè): al di là del potenziale spettacolare, niente parla delle assurdità del nostro tempo come la trilogia dei fratelli Wachowski, niente come essa rappresenta bene, ad ogni livello, ciò che abbiamo visto/vissuto in questi due lustri; altro che fantascienza, Matrix è l’epoca manipolata dal potere che stiamo vivendo, le ombre nella caverna spacciate per la realtà, la favola truffaldina che ci circonda, che ci invade, che ci martella. Vorremmo, come Neo, un telefono a disposizione per uscirne. In due parole: Grande Metafora.
Mentre Woody Allen assomiglia sempre di più a un’installazione e Scorsese disperde il suo talento, Cronenberg, di cui tanto bene ho scritto dei suoi ultimi film, in questa sede mi pare tranquillamente trascurabile. Il migliore van Sant (Gerry) in Italia non l’abbiamo visto. Si affaccia al mondo un nuovo maestro, P.T. Anderson, che giustizia vorrebbe fosse con almeno un film (Punch Drunk Love? There will be blood?) in questa classifica. Ma al cuore non si comanda e, anche se il Tempo pronuncerà il suo nome e non quelli della mia classifica è a me che bado, è il mio cuore che sta scrivendo.
La Bigelow che gira un paio di film proprio niente male.
Brain DePalma: un decennio da incorniciare, da Mission to Mars (un film sulla fantascienza, non di fantascienza) a Femme fatale (la teoria più sfrenata a servizio del pubblico). Col controverso Redacted a suggello (Black Dahlia? Mai più visto).
Cos’altro?
Almodovar che diventa un classico. Lucrecia Martel. Alcuni colpi di Kim Ki-duk. Molti stralci sontuosi di Wong Kar-wai. Tutto Tsai Ming-Liang (il suo Good bye Dragon Inn è il primo dei non eletti). Guy Maddin forever. Matthew Barney, se non è troppo sminuente. Tre capolavori di Weerasethakul, il regista che meritava di più dai festival e dalle classifiche critiche (compresa la mia). E tutti i Ruiz possibili.
Lars Von Trier: il grande ricatto del cinema del danese alla fine va pagato. Piaccia o meno LVT è una personalità imprescindibile. Il migliore risultato del suo decennio: Manderlay, paradossalmente il meno considerato, il più misconosciuto, il più maltrattato è in realtà il suo risultato più rigoroso, scomodo e ambiguo. Il culmine dell’arte del regista nel sottrarre allo spettatore comode posizioni morali da assumere.
E il cinema italiano? Troppo se n’è scritto per ribadire la tristezza del nostro panorama medio, ma naturalmente di cose ne abbiamo viste: Corsicato/ Chimera, Olmi/ Il mestiere delle armi. Garrone/ Gomorra. Bellocchio.
Moretti invece merita un discorso a parte: esattamente come Aprile, film che mi apparve mediocre e che il tempo ha posto in altra prospettiva, mettendone in luce tutto il potenziale presagico, anche Il Caimano, con tutti i difetti che ancora gli riconosciamo, finisce per avere lo stesso valore, la stessa forza a posteriori che prescinde dal valore del film, che si fa sintomo e segnale. Anche per questo La stanza del figlio ci continua a sembrare un film di poca rilevanza, lontano com’è dal versante pubblico, rifugiato in un tipo di intimismo che non appartiene all’autore.
In definitiva
1) Mulholland Drive – David Lynch
2) Nightwatching – Peter Greenaway
3) Twentynine Palms – Bruno Dumont
4) Les destinées sentimentales – Olivier Assayas
5) Eternal sunshine of the spotless mind – Michel Gondry
6) I re e la regina – Arnaud Desplechin
7) Femme fatale – Brian De Palma
8) Sotto la sabbia – François Ozon
9) I Tenenbaum – Wes Anderson
10) Manderlay – Lars Von Trier
7) Il profeta
8) Gomorra
9) Cloverfield
10) À l’Intérieur
Dieci anni spietati. Un’occasione ghiottissima per ripensare a due lustri di cinema, fare il punto della situazione e ritarare qualche valutazione affrettata o, forse, troppo ponderata. Intanto, anche se l’argomento è stato più volte trattato e tema anche di uno speciale, è interessante capire ancora una volta come nasce il voto, questo numero il più delle volte rappresentativo solo in parte del giudizio che ci sta dietro. Eh sì, perché è un po’ come quando si andava a scuola: c’erano i professori con un range di valori molto basso (non più di otto, mai meno di cinque), quelli che tra il cinque e il sei ficcavano una marea di +++ o — e quelli che invece pensavano che se la scala di valori più utilizzata prevede dieci numeri una ragione deve pur esserci. Io provo a includermi fra questi ultimi, ma alla fine trovo sempre un motivo per aggiungere o togliere e alla fine difficilmente supero l’otto e mezzo e raramente scendo sotto al quattro. Può capitare, ma è più un’eccezione che la regola. Certo, è anche vero che trovare un film che ti convince così tanto da includerlo immediatamente tra i tuoi preferiti di sempre non è così facile, anche perché spesso è il tempo a porre ogni tassello al giusto posto, facendo rientrare i facili entusiasmi così come l’eccessiva severità. Ecco quindi l’opportunità per rimettere le cose al loro posto, anzi, per andarle semplicemente a prendere nel luogo della memoria in cui si sono naturalmente collocate in questi dieci anni.
A questo punto, come estrapolare i dieci titoli più significativi del primo decennio del nuovo millennio? Un valore molto importante, direi determinante, è affidato proprio alla memoria. Ci sono film che a suo tempo colpirono, anche molto, e di cui non ci si ricordano che pochi sbiaditi fotogrammi, mentre alcune sequenze, magari di opere accantonate in tutta fretta, continuano a ronzare in testa nonostante lo scorrere inflessibile del tempo. Tra gli eventi più ingannevoli vi sono i festival cinematografici. È vero che si vive a stretto contatto con la propria passione e in pratica per qualche giorno ci si ciba unicamente di cinema, affinando anche i propri criteri valutativi, ma è anche vero che il più delle volte i giudizi attribuiti risentono del contesto in cui sono inseriti per cui i film vengono valutati, molto spesso inconsciamente ma accade, confrontandoli con gli altri film visti al festival. Il che non può che portare a un giudizio numerico distorto. Ricordo un festival di Venezia di una mestizia tale che quando vidi una commedia francese ben scritta e gradevole gridai intimamente al miracolo, mentre oggi se ripenso al pur apprezzabile “Regine per un giorno” non scomoderei mai un otto. Così come oggi otto pare eccessivo per “Piccoli affari sporchi”, interessante film la cui incisività è però ridimensionata da una seconda visione; anche per l’opera di Stephen Frears si tratta di una sindrome da festival perché si trattava di uno dei pochi film non pretenziosi ed efficaci in Concorso a Venezia e come tale, nel contesto festivaliero, meritava più degli altri. Tra gli otto eccessivi figura anche “Tredici variazioni sul tema”, di Jill Sprecher, di cui non ricordo quasi nulla (ci sarà un motivo, no?) e pure “L’appartamento spagnolo” di Cédric Klapisch necessita di una ridimensionata, ma probabilmente allora avevo bisogno di una commedia un po’ furbetta e ruffiana. Troppo anche otto e mezzo per “Il ritorno” di Andrei Zvyagintsev, Leone d’Oro di qualche anno fa a Venezia, che continuo a difendere come opera ben fatta e molto sensibile nel tratteggiare i personaggi, ma la cui potenza nel tempo ha lasciato tracce meno profonde del previsto. Poi è vero, ogni tanto bisogna sbilanciarsi un po’ e seguire il proprio istinto. Se c’è una materia soggettiva e volubile è proprio la critica cinematografica! In quest’ottica di revisione ci sono anche fenomeni opposti. Non ho amato nessuno dei due “Kill Bill”, ma riconosco che dietro c’è la mano di un folle e geniale regista la cui impronta continua a condizionare la Settima Arte: 6,5 è un po’ poco (non più di 7, comunque!!!). Non avrei mai pensato che un film nato piccolo come “I segreti di Brokeback Mountain”, lontano da strategie di marketing e furbizie, sarebbe diventato un successo di tale portata. E, pur nel divario tra una prima parte di pura emozione, e una seconda di eccessivo accumulo, il film è di quelli che restano, e per me è restato. Tra le ultime vittime della sindrome da festival, c’è anche un ritocco che sono ancora in grado di apportare. Si tratta di “Mr. Nobody” di Jaco van Dormael, visto a Venezia proprio in questa stagione e ancora inedito nelle sale. A sei mesi di distanza quell’uovo cotto da un disoccupato in Sudamerica che incide sul futuro newyorchese del protagonista continua a ronzarmi in testa. E non è l’unica immagine potente del film che ha il difetto di non essere compiuto, e quindi riuscito nel significato più lineare del termine, ma che ha momenti di pura emozione che ti rimangono appiccicati addosso. Se non è cinema questo? Almeno 8, quindi, a “Mr. Nobody”!
Ma veniamo a noi!
Ecco i fatidici dieci:
1) Mulholland Drive perché è un viaggio che si presta a più interpretazioni e ogni visione aggiunge un tassello che rispetta la razionalità ma scava nell’inconscio; tutt’altro che inconcludente e pretenzioso come il successivo INLAND EMPIRE.
2) Mare dentro perché l’umanità messa in scena mi sembra ancora oggi scevra da qualunque tesi; non è solo un film a favore dell’eutanasia, ma soprattutto la storia di un uomo e delle persone che gli gravitano intorno; il tutto messo in scena con un pudore e una sensibilità davvero rari.
3) Ilcastello errante di Howl perché è pura fantasia al servizio di un racconto.
4) Magnolia perché è un film molto potente che ha condizionato l’immaginario degli anni successivi e a distanza di due lustri ho dimenticato l’aria da primo della classe un po’ supponente che ho respirato durante la visione e continuo a portarmi dentro Julianne Moore in farmacia, l’intervista al fallocrate Tom Cruise e, ovviamente, la pioggia di rane.
5) A.I. – Intelligenza Artificiale perché anche se non è completamente riuscito e ha una parte centrale baraccona che funziona poco, continua a farmi struggere sull’inesorabile scorrere del tempo.
6) La pianista perché riesce nel difficile intento di trasformare in immagini un percorso intimo, perché è un pugno nello stomaco ma non è gratuito, perché è uno dei personaggi sgradevoli interpretati da Isabelle Huppert più riusciti.
7) La canzone più triste del mondo perché è follia, creatività, gioco,divertimento, insomma, cinema!
8) Bastardi senza gloria perché è un atto d’amore nei confronti del cinema, sia nelle sue implicazioni narrative, che nella squisita forma con cui riscrive la Storia.
9) Primo amore perché è un’opera raffinata, difficile e riuscita che dimostra il coraggio di un autore che non cede ai condizionamenti e segue il proprio imprescindibile sentire.
10) No man’s land perché è vero che non è il finale a determinare la riuscita di un film, ma in questo caso tutto il film concorre a quel terribile finale, capace di generare un vero e proprio corto circuito emotivo.
Ci sono poi anche alcuni film, fuori classifica e in ordine sparso, che vorrei citare, in alcuni casi con specifiche sequenze, perché più volte ricorrenti nei pensieri che si sovrappongono a ritmo frenetico nella quotidianità:
– il suicidio di massa che chiude Glowing Growingdi Horie Kei;
– l’atmosfera di inquietudine che si respira nel rapporto di coppia in Wendigo di Larry Fessenden;
– la follia organica di Harward Man di James Toback;
– il cameo di Bryan Adams in La casa dei matti di Andrei Konchalovsky;
– in Bowling a Columbine di Michael Moore: il riepilogo delle connivenze americane con regimi dittatoriali e sanguinari sulle note di "What a wonderful world", cantata da Louis Armstrong, e il formidabile cartone animato che spiega l’atavica paura che condiziona il popolo americano in ogni sua scelta;
– il viaggio finale in treno di Chihiro e del demone in La città incantata di Hayao Miyazaki;
– alcuni confronti tra le due coppie protagoniste di I giochi dei grandi di John Curran;
– se penso a un horror mi viene subito in mente Alta tensione di Alexandre Aja;
– Meryl Streep che spiega a una stupita Anne Hathaway come è arrivata ad acquistare il suo infeltrito maglioncino ceruleo in Il diavolo veste Prada di David Frankel;
– i costumi e le scelte musicali di Marie Antoinette;
– il nodo alla gola con cui si giunge alla parola fine in Eden Lake;
– il finale struggente di Il curioso caso di Benjamin Button;
– il finale finto ottimistico, in realtà crudele, di 5 x 2 di Francois Ozon;
– il bacio tra le due matrone Catherine Denevue e Fanny Ardant in Otto donne e un mistero di Francois Ozon;
– la compiutezza della sceneggiatura di Gosford Park di Robert Altman;
– l’inganno alla base de Il genio della truffa di Ridley Scott, in cui sono caduto come una pera.
e sicuramente tanti altri … alla prossima, quindi …
Incapace di riassumere l’ultimo decennio in formule inevitabilmente generalizzanti, lascio alla lista (redatta senza una logica che non sia squisitamente estetica e con un solo vincolo : film che hanno avuto una distribuzione italiana) il compito di sintetizzare il mio personale cosa resterà :
1) A.I. Intelligenza artificiale
Premessa: Un minuto di silenzio per tutti i cineasti che negli ultimi dieci anni non sono arrivati in Italia, a causa di una linea culturale – distributiva che rende ogni classifica inevitabilmente parziale.
1) Mulholland Drive – David Lynch (2001)
2) Je rentre à la maison – Manoel De Oliveira (2001)
3) Three Times – Hou Hsiao Hsien (2005)
4) Che ora è laggiù? – Tsai Ming Liang (2001)
5) Twentynine Palms– Bruno Dumont (2003)