Festival di Roma – Il Concorso

Il Concorso del settimo Festival di Roma opera un deciso salto di qualità rispetto alle edizioni precedenti. Convinzione che precede il giudizio specifico sui film: ognuno ha avuto il suo preferito, nella settimana all’Auditorium ogni pellicola ha trovato sostenitori, ma – questo l’importante – la competizione ha evidenziato un’impalcatura coerente e compatta, all’insegna di un progetto preciso e una logica interna. 3 film italiani, 3 americani, 3 orientali (due cinesi e uno giapponese), 2 francesi e uno in rappresentanza di Russia, Ucraina, Polonia e Messico si sono contesi gli allori principali. Registi affermati e di culto si sono confrontati con figli d’arte e nomi nuovi: dunque Takashi Miike e Johnnie To contro i figli di Skolimowski e Coppola (Roman), sullo sfondo promesse quali Enrique Rivero e addirittura un kolossal come 1942. Occhio particolare ai cineasti di recente affermazione (Valérie Donzelli) e ai veterani misconosciuti in Italia (Jacques Doillon). Müller ha avuto il coraggio di spostare la selezione in direzione degli autori, inserendo in concorso oggetti apparentemente ostici e complessi, sguardi diversi dal gusto occidentale, approcci da latitudini lontane che chiedono il loro tempo di comprensione. Film che in altri festival per convenienza sarebbero in sezioni collaterali e che hanno costituito il lustro di questo: è il caso di Fedorchenko e Muratova.
I premi, lo scandaloLa giuria di Jeff Nichols non si è dimostrata all’altezza. Le riflessioni dei membri, guidati dal regista di Take Shelter, hanno generato un evidente paradosso: premiare con il Marco Aurelio d’oro uno dei film più deboli della competizione, Marfa Girl di Larry Clark (voto: 4.5). La pellicola rappresenta una situazione ma non si evolve, limitandosi alla galleria di personaggi sullo sfondo della periferia texana. Sesso, droga, violenza e devastazione: Clark ripete sempre lo stesso film, altra appendice di Kids, coniugando trasgressioni di varia risma con spiegazioni a uso dello spettatore. Il monologo esplicito è dietro l’angolo su temi quali libertà sessuale, guerra o immigrazione (siamo al confine messicano). Regista congelato, narratore di una storia identica a sé stessa, dove lo shock è anestetizzato e la tragedia dietro l’angolo. Un paio di scene risolte (l’insegnante incinta che sculaccia l’alunno) non spostano i termini delle questione.
E la chiamano estate (6) vince il premio per la regia e migliore attrice (Isabella Ferrari). Per il coraggioso quanto irrisolto film di Paolo Franchi (vedi scheda), ci limitiamo a segnalare la pertinenza del riconoscimento registico: se c’è un aspetto rimarchevole, infatti, questo è proprio l’approccio personale all’inquadratura e il concepimento della scena. Seppure non riuscito, resta il tentativo di spezzare il recinto realista del cinema nazionale attraverso un corpo estraneo mentale e sfuggente: per questo sono inadeguati fischi e le urla in sede di proiezione stampa.
Poche battute sugli altri italiani. Il premio speciale della giuria, Alì ha gli occhi azzurri (4) di Claudio Giovannesi (vedi scheda), è privo di interesse sia tematico che stilistico: storia di due adolescenti a Ostia, è un presunto tentativo post-pasoliniano che insegue il dettato realista sulla carta. Sullo schermo c’è invece un ripasso di stereotipi tra cui il dialetto romano, la piccola criminalità, la prima volta, l’immigrazione. La dedizione del giovane regista e la camera attaccata ai corpi non ottiene un “effetto Dardenne”. Al contrario Pappi Corsicato respinge il realismo e colpisce nel segno: Il volto di un’altra (7.5) è commedia colta e cinefila, in odore di surrealismo, tra Almodóvar e Buñuel ma – come sempre nell’autore – con una sua identità precisa che gioca a spiazzare l’aspettativa con un discorso tutto visivo.
Belle sorpreseApplausi per entrambi i film a sorpresa orientali. 1942 di Feng Xiaogang (7) racconta la carestia nella provincia dell’Henan, che quell’anno provocò 3 milioni di morti nell’indifferenza del governo centrale. La pellicola si apre con una bellissima scena iniziale, il pranzo comunitario che cambia aspetto e si trasforma nel “sacco” del grano a causa della fame. Inizia così l’esodo biblico della popolazione, che si muove in massa e il film la segue raccontando le vite di alcuni personaggi. Il regista opera rovesciamenti interni alla scena, come la vendita della ragazza che viene interrotta dall’attacco degli aerei giapponesi, deviando il punto del discorso: diversi toni e stati d’animo si susseguono nell’arco della ripresa, disperazione, solidarietà, speranza e ostilità convivono nella stessa sequenza. Solido kolossal con una chiara concezione della “massa” (la massa si sposta, la massa si sostiene a vicenda), è un’operazione con ogni tassello al suo posto: scene iconiche (la bomba che cade sulla Bibbia), inquadrature di largo respiro, campi lunghi che ampliano la prospettiva (l’addio nel campo di grano). Si eccede in scene madri, ma ci può stare: è pathos senza retorica, grandeur vecchio stile che vola sempre alto.
Drug War (7.5) non aggiunge nulla alla poetica di Johnnie To, ma ne conferma l’innegabile maestria. Non c’è premessa, siamo subito dentro al thriller: l’antidroga contro i trafficanti in un gioco di apparenze, in cui ognuno è diverso da sé, niente è ciò che sembra. Come il commissario recita la parte di entrambi i criminali (venditore/compratore), calandosi a turno nell’uno o nell’altro, così dall’altra parte il boss è solo un prestanome e si “ramifica” in sette personaggi. L’action thriller è sempre luogo delle possibilità narrative e visive: i topoi vengono costantemente rivisti, il senso slitta e diventa scettico nella galleria di figure come fratelli muti, boss obesi e autisti fumati. Anche il marchio di To, la sparatoria, è riletto e aggiornato: al solito ogni oggetto sulla scena è funzionale, può diventare utile o disturbante, come avviene – in questo caso – con i bambini dello scuolabus che irrompono nella resa dei conti. La guerra della droga come l’elezione della triade di Hong Kong, il finale aperto à la Election suggerisce l’ipotesi di un seguito.
La pellicola orientale più debole, almeno secondo chi scrive, è Lesson of the Evil (4) di Takashi Miike. Nella storia del professore che denuncia una latente follia, sino a fare strage dei suoi alunni, l’autore torna al registro assurdo e delirante: il plot è annacquato a dismisura, allungato da un’ironia a tavolino e funestato dalla seconda parte che si limita al countdown dei superstiti. Gioco macabro sul rovesciamento del ruolo di educatore (dall’istruzione alla distruzione), è un divertissement che fallisce sul piano stilistico: non c’è progressione, solo ripetizione ad libitum degli stessi temi, quasi senza sceneggiatura, avvicinandosi al risultato “folle”, in realtà studiato e prolisso, di Ichi the killer o Izo. La critica è per il film, il regista di Audition non è in discussione.
I migliori non vincono nullaAleksei Fedorchenko racconta le donne del popolo Mari, comunità di origine finnica che vive lungo le rive del Volga. La pellicola è divisa in 23 momenti, di varia durata e intensità (da una manciata di secondi a molti minuti), dedicati a donne il cui nome inizia con la O. Il regista riprende il discorso di Silent Souls, che inscenava il rito della sepoltura Merya, ma supera la struttura narrativa che rendeva più convenzionale quel film: qui si procede per frammenti, collegati da un filo concettuale e visivo, si passa da un quadro all’altro in modo fluido e sperimentale. L’autore lavora sull’annullamento di sé e presenta la Tradizione senza filtro, assecondandola: non c’è grottesco nell’apparizione dei fantasmi o nella maledizione “vaginale”, i cari estinti possono tornare dalla morte perché si annulla la distanza documento/superstizione, siamo dentro al racconto che è il popolare. L’ipotesi sovrannaturale resta sempre un suggerimento nell’esperienza di queste donne, che infine guardano in camera e dicono il loro nome, dichiarazione di identità e, forse, di alterità rispetto al cinema corrente. Non è solo etnografia, ma una politica della visione. Il risultato è una serie di stralci di accecante bellezza, come la donna che “cerca” il chiurlo all’interno dell’utero. Per questo Le spose celesti dei Mari della pianura (8.5) è il film più bello del Concorso.
Un uomo torna dall’amica di infanzia per chiedere un consiglio: egli ama due donne, la moglie e l’amante, è incerto sulla decisione da prendere. La stessa scena si ripete con diversi attori, toni e recitazioni. E’ il provino di un film. Eterno ritorno: provini (8) sono gli Esercizi di stile di Kira Muratova: come nel testo di Queneau il “fatto” è lo stesso, mutano a turno le parole, i registri e le intonazioni (gioco che coinvolge – per esempio – anche la scenografia). Nel consueto bianco e nero della regista ucraina, che qui ha una spiegazione precisa, si coltiva gradualmente una commedia sulle possibilità della narrazione e del fare cinema. Se lo spunto di partenza, assimilato, esaurisce le potenzialità, è la reiterazione eccessiva e sfacciata che libera l’ironia dell’operazione: di volta in volta gli attori sono sovraccarichi o dimessi, giovani o anziani, convincenti o titubanti, si conducono correttamente o recitano volutamente “male”. Muratova: “Si dice che il passato non usa il condizionale, la nostra storia è il tentativo di superare questo assioma”. Frase cult ripetuta all’infinito potenziale: “La vita non è breve, ma è terribile e poi finisce”.
A margine: Mains dans la main (6.5) conferma le doti di Valérie Donzelli, anche se inferiore a La guerra è dichiarata, e ottiene il meritato premio come Migliore attore per Jérémie Elkaïm. Trascurabile il fallimentare Ixjana (4.5) di Józef e Michał Skolimowski. Tra Bulgakov e Goethe (Faust), tra Lynch e Polanski, questo è un thriller allucinato su uno scrittore che forse è un assassino, all’insegna della deformazione della realtà, con figure che scompaiono e tornano in altra forma: riproposizione di luoghi e situazioni tutti derivativi, per quanto dignitosamente impaginati.

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Chiudono la competizione Mai Morire di Enrique Rivero e due americani: The Motel Life di Gabriel e Alan Polsky, già produttori de Il cattivo tenente di Herzog, e A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III di Roman Coppola. Entrambi generalmente apprezzati.
Una preferenza personalePer ultimo il film prediletto del Concorso, Un enfant de toi di Jacques Doillon (8).

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Aya si è separata da Louis, con cui ha una figlia di sette anni. Adesso ha una relazione stabile con Victor, ma non riesce a staccarsi dall’ex compagno, lo incontra spesso, ci parla, resta attratta da lui. Jacques Doillon rivendica la sua discendenza dalla Nouvelle Vague con questo film personale e ossessivo, melò incurante della durata (140 minuti): tutto è basato sulla reiterazione e cucito addosso a Lou Doillon, figlia dell’autore e Jane Birkin e sorellastra di Charlotte Gainsbourg. Un “film parlato” che mette il dito nella piaga dei sentimenti e si sviluppa gradualmente, senza fretta: i quattro adulti (due coppie: Aya/Victor e Louis/Gaelle) sono osservati dalla piccola Lina (l’enfant del titolo) ma non giudicati, al contrario il suo ruolo è estrarre le loro pulsioni e motivazioni, compito che svolge lentamente in quanto arduo è “sbucciare” i caratteri dalle sovrastrutture sociali e narrative (le vite, gli incontri, i dialoghi: tutte convenzioni). In tal senso Lina è il film: un graduale spogliamento dei quattro dalle loro maschere, nei lati dolorosi ma anche in quelli ridicoli e paradossali (“E’ giusto che mamma dorme con l’uomo di prima?”, si chiede). L’intreccio, che procede con il grimaldello decisivo di Lina, può essere perfino sintetizzato in un semplice percorso, il tragitto dei personaggi da ciò che dovrebbero fare a quello che semplicemente va fatto. Così il triangolo si scioglie all’aperto, per una sorta di impossibile “accordo” tra le parti (“Io mi prenderò tua figlia”, conclude Victor), culminando nella ripresa sulla spiaggia che inscena un matrimonio trasfigurato.
La post Nouvelle Vague viene apertamente citata, per esempio la scena di letto a tre suona come rilettura deformata della nota sequenza de La maman et la putain (lì un uomo – due donne / qui una donna – due uomini): questo rimando lieve e non ingombrante conferma, dietro l’archetipo della storia, la sensazione di una dichiarazione poetica. Nello sguardo di Doillon oggi l’avanguardia si istituzionalizza, la trasgressione diventa sposalizio, ma la normalizzazione è solo apparenza perché soprattutto resta uno scetticismo di fondo: c’è ironia intrinseca nella chiusura, c’è un finto anello nuziale fatto di latta, in realtà il matrimonio non è vero. Il regista de La vendetta di una donna firma così un atto di resistenza di certo cinema, dilatato ed “esagerato” con la tenacia degli ultimi: cinema che lavora sull’annullamento del movimento per giungere al sentimento (non più l’azione ma l’emozione), cinema che si dilunga e ripete, approccio funzionale e propedeutico per cancellare il contorno e ottenere una drammaturgia fatta solo di sguardi, gesti e sfioramenti. Quartetto di attori sublimi (più la bimba, Olga Milshtein) in cui è scontato preferire la classe inquieta di Lou Doillon. Riconoscimento alla migliore attrice emergente per Marilyne Fontaine, ma è un premio di consolazione per un film garreliano che avrebbe meritato di più.
– Cosa hai imparato oggi a scuola?
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– Il passato prossimo.