
TRAMA
Siamo tutti case vuote e aspettiamo qualcuno che apra la porta e ci renda liberi.
Un giorno il mio desiderio si avvera.
Un uomo arriva come un fantasma
e mi libera dalla mia prigionia.
E io lo seguo, senza dubbi, senza riserve…
Finché incontro il mio nuovo destino
Kim Ki-duk
RECENSIONI
E’ ovvio che un film come BIN-JIP, se paragonato alle prove precedenti dell’autore, soprattutto le prime (non abbiamo ancora visto la penultima fatica del regista premiata a Berlino con l’Orso d’argento), può apparire un’operazione calcolata (accusa rivolta anche al bellissimo PRIMAVERA…) e un esercizio furbo volto a compiacere il pubblico occidentale (che ha infatti applaudito entusiasta) e diciamo pure che questo dubbio non mi sento di respingerlo del tutto, però… Però, al di là di queste riflessioni, che devono essere comunque incardinate in un discorso più ampio che va a ricomprendere la considerazione della svolta operata dall’autore nei suoi ultimi lavori in cui la violenza – tema prediletto - più che agita viene contemplata e subita, mi risulta molto difficile non soggiacere al fascino di questa pellicola, all’idea del regista che, secondo alcuni debole o troppo scarna, mi pare alla fine reggere per tutta la sua durata non cedendo il passo BIN-JIP a nessun calo di tensione, anzi riuscendo coerentemente a variare il tono in coda e a chiudersi con bello slancio. Non riesco a condannare un cineasta solo perché ha messo da parte il suo pessimismo più esplicito (cosa vera fino a un certo punto: si pensi alla spietata pallina da golf che, rompendo il parabrezza, ferisce involontariamente una donna e al conseguente sgomento del protagonista, stilizzato ribadire un discorso che è ben lontano dall’esaurirsi, a quanto pare) soprattutto se la tenerezza di questa muta storia d’amore appare così naturale e coinvolgente; non riesco a non plaudire all’improvvisa svolta scopertamente fantasmatica del film (Non è dato di sapere se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà, scrive Kim Ki-duk); non riesco a non vedere in quest’opera l’ennesimo esempio di quanto il cinema asiatico (di cui non sono mai stato un cultore) sia davvero molto molto più avanti di quello occidentale, sempre più ridotto a formuletta o ripiegato su un (nobile quanto si vuole) schematismo autoriale (altri straordinari titoli dell’Est la Mostra ci ha regalato). Kim Ki-duk, che con poche, decise pennellate, ci dà una splendida figura di ribelle (che è anche un po’ spirito della casa, angelo custode) e, nella forma quasi romanzesca della fuga d’amore, un breve apologo contro la narcotica tranquillità borghese (è questo il vero film antagonista della Mostra, altro che Guido Chiesa…), è davvero un sublime intagliatore di spazi, un regista di altissimo stile, un fine creatore di metafore che sembra aver sposato felicemente la leggerezza senza tradirsi. Una curiosità: il film doveva essere musicato da Michael Nyman (suo il Live del 1994 - che il protagonista inserisce nel lettore dello stereo in casa del fotografo) ma per motivi ignoti la collaborazione è saltata all’ultimo minuto.

Il 'Ferro 3' del titolo è la mazza da golf meno utilizzata dal giocatore, che impolverata nell'apposito contenitore testimonia la lontananza da casa; ma è anche il simbolo di un primo incontro teneramente folle, trasformato in ripetizione ossessiva come strana dichiarazione d'amore. Un miracolo di spazi e di sguardi, che cala l'asso nella potenza dell'antitesi: il luogo fisico della Casa, fulcro esistenziale di una borghesia panciuta e violenta, è finalmente dominato dall'uomo che al turbine delle vacue parole prodotte da una crisi di coppia oppone il rumore del silenzio, semplicemente. La comprensione tra amanti viene affidata ad un rapporto di complicità restituito attraverso particolari e docili minuzie, in un crescendo filmico presto emozionante; il timido sfiorarsi dei piedi è il simbolo di una cinepresa ostinatamente platonica, l'accoppiamento fisico è regalato all'intuizione (niente sesso, soltanto un briciolo di onanismo) come se fosse anch'esso invisibile. In questo conatus verso il sentimento, da parte di uno spettro forse sfinito dalla solitudine, il regista solo apparentemente rinuncia alle suggestioni predilette; la sua cosmologia della violenza è sotterranea ma egualmente presente, rarefatta ma chiaramente ineludibile. Esplode un cinema tremendo, che esaltando appieno la scelta silenziosa del protagonista ammazza ogni possibile commento: la pallina da golf sulla testa della donna per scalfire la materia cerebrale, il teorema di violenza domestica suggerito e quindi doppiamente doloroso. Di progressiva perfezione l'evoluzione del protagonista: egli, spezzando l'idillio con la Casa nel delinearsi di quello con la Donna, non ha più ragione di proseguire nelle sue occupazioni e si abbandona all'arresto. Sarà la fine del viaggio verso l'invisibilità, il suo pieno compiersi tra le pareti di una cella carceraria; si dissolve il sogno di comporre la violenza (la sepoltura del cadavere) mentre subirla non fa più male (il prigioniero malmenato), l'uomo invisibile è ormai totalmente estraniato mentre lo spettatore non è mai stato così in empatia. Ciò che non si vede (l'occhio...) è più che mai presente: con dolce ironia ed impeccabile eleganza la pellicola approda all'ultima sequenza, un ritorno alla Casa primaria che tradisce netta circolarità. Kim Ki-duk sotto l'ombrello del film minore firma ad oggi il suo capolavoro: infine appoggia delicatamente sul piatto la contrapposizione ultima e devastante. Il pugno e la carezza, come sempre, in profonda antitesi: Lui non è più neanche un personaggio ma pura pantomima, silenzio ma dialogo dei sensi, un bacio fantasma che appiana i lividi del vivere.
Non è dato sapere se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà.

Una rete: al di là, una statua muliebre di gusto neoclassico. Una violenza invisibile increspa la rete senza scalfire la calma della siderale figura. L’essenzialità di questa prima inquadratura riassume al meglio il più recente incanto di Kim Ki-duk, uno dei film più densi e commoventi affacciatisi sui nostri schermi negli ultimi tempi. Lungi dal limitarsi a un raffinatissimo esercizio di stile (regole del gioco: pochi personaggi, un pugno di location, azione lineare, dialoghi ridotti all’osso), il regista fa di FERRO 3 un’opera a più livelli di lettura, separabili in sede analitica ma indissolubilmente connessi sul piano testuale e, soprattutto, magnificamente risolti dal punto di vista cinematografico. Il primo livello offre una storia d’amore, una doppia via crucis che sfocia in un legame impossibile coronato dal trionfo sulla violenza inflitta e subita. Il girotondo espiatorio di PRIMAVERA… rinnova il proprio fascino in un susseguirsi di scene ellittiche in cui il dramma si tinge di commedia e flirta con il thriller, dimostrando una levità lontana da ogni stonata leggerezza, aprendosi al sorriso senza dimenticare le raggelanti tinte del sangue. A un secondo livello, FERRO 3 è una riflessione sul cinema come arte della messinscena: i protagonisti entrano in case estranee, ne modificano gli equilibri, si servono di ogni set per fissare un ricordo fotografico del loro passaggio, propongono nuove disposizioni degli oggetti trovati (indumenti sporchi, cibo, pistole, cadaveri), aprono nuovi sviluppi possibili per le esistenze altrui, e per le proprie. Questo secondo livello si unisce al primo grazie all’importanza attribuita alla visione: per amare ed essere amati, come per transitare nelle abitazioni (nell’immaginazione) altrui, occorre passare inosservati, librarsi nell’aria (l’allenamento in prigione), essere nient’altro che sguardo. Ed è qui che s’innesta il terzo livello, il più struggente: un apologo sull’indecifrabile natura delle cose. Le immagini tanto desiderate (il regista-amante si è fatto puro occhio per captarle) potrebbero essere proiezioni mentali (il golf fantasma dei carcerati), riflessi in uno specchio opaco, balsami fantastici del dolore quotidiano. Forse, soggetto desiderante e oggetto desiderato non sono che ombre sfocate, corpi senza peso non perché infine liberi da ogni vincolo esterno ma in quanto privi di esistenza al di fuori di un effimero sogno (in) comune. Fra tanti abissali dubbi, una luminosa certezza, quella del talento vivace e rigoroso di un regista che riesce a innestare senza tentennamenti l’ironia terribile e i sussulti horror dei primi film (L’ISOLA in testa) nel corpo di opere d’inappuntabile equilibrio e inesausta invenzione (il gioco delle cornici e delle superfici trasparenti, gli imprevisti e depistanti movimenti di macchina), lontanissime da ogni bamboleggiante poeticismo e proprio per questo realmente poetiche, di una poesia fatta di carne e di lacrime quanto di soffio etereo, capace di stregare in eguale misura il cuore e il cervello (per tacere dello stomaco). Attendendo SAMARIA (Berlino 2004) e gli altri inediti, non mi servono altre prove per attribuire a FERRO 3 il massimo dei voti.

Dopo i fasti veneziani, e grazie al premio alla regia conquistato, arriva nelle sale l'ultimo film di Kim Ki-duk, autore coreano molto amato nei festival internazionali (suo anche l'Orso d'Argento a Berlino per "Samaritan Girl") e solo negli ultimi tempi distribuito in Italia. La violenza, spesso gratuita, degli esordi ("L'isola", "Address unknown") si e' evoluta in uno stile piu' morbido, ma resta elemento centrale della sua visione e percorre trasversalmente anche l'ultima opera, insieme a un pessimismo ingentilito da una tenera storia d'amore. L'aspetto piu' irritante di "Ferro 3", gia' presente anche in "Primavera, Estate, Autunno, Inverno ... e ancora primavera" e' la forte connotazione morale del racconto, con il bene e il male chiaramente distinti e riconoscibili, nonostante qualche macchia (l'omicidio involontario con l'inseparabile mazza da golf) che pero' non lascia traccia. I due protagonisti, infatti, vengono subito connotati come vittime di una societa' malata e incapace di comunicare e il loro mutismo, affascinante ma forzato, appare come un disperato tentativo di tornare all'essenza delle cose abbandonando la vacuita' delle sovrastrutture, un ultimo baluardo per fronteggiare la grettezza del mondo. Ma l'approccio giudicante del regista banalizza i personaggi e sfora nella retorica; ad esempio nel rifiuto parziale della tecnologia (la lavatrice) per ritornare ai "bei tempi" in cui si lavava a mano. Il punto di vista di Kim Ki-duk, drastico e non per forza condivisibile, non disdegna virate surreali (imbarazzanti le incursioni della guardia nella cella e le discutibili capacita' mimetiche del protagonista) e passa attraverso siparietti didascalici non cosi' illuminanti, in cui i personaggi vengono piegati al messaggio da veicolare. Si incontrano cosi' famiglie litigiose in cui i bambini giocano con pistole, fotografi marpioni e mariti caricaturali di rara cattiveria. Il tutto mentre si consuma un amore puro e, ovviamente, incompreso, che cerca la poesia ma inciampa in eccessivi schematismi. La discontinuita' di certe soluzioni narrative e', pero', sostenuta da un apprezzabile andamento stilistico e da alcune belle idee: il vuoto di case temporaneamente disabitate riempito da un silenzio garbato, la semplicita' di gesti e sguardi empatici a dare voce al linguaggio del cuore, la scorrevolezza con cui il racconto si lascia seguire, il superamento degli argini di qualsiasi "genere" e una intensa sequenza conclusiva. La necessita' di una didascalia finale ("non e' dato sapere se il mondo in cui viviamo e' sogno o realta'"), per spiegare la possibile coesistenza di diversi livelli narrativi, non depone a favore della tesi sposata dal film: e' infatti la parola (scritta, ma pur sempre parola) a dover chiarire cio' che le immagini, evidentemente, non sostanziano a sufficienza. Perfetto suggello di un film decisamente sopravvalutato in cui idee interessanti, ingenuita' e un piglio arrogante travestito da pacatezza convivono in equilibrio precario.
