TRAMA
In un manicomio isolato vivono per tutto l’anno cinquanta uomini, che trascorrono i loro giorni rinchiusi in un piano dell’edificio. Gli uomini hanno rari contatti con il mondo esterno, perfino con l’équipe medica. Ciascuno di essi è stato internato per motivi diversi: hanno problemi psichiatrici, hanno ucciso qualcuno, oppure hanno fatto irritare qualche funzionario locale. Una volta ricoverati, gli uomini condividono la stessa vuota quotidianità. Camminano lungo lo stesso corridoio chiuso con sbarre di ferro e cercano il calore umano tra i loro compagni di sofferenza.
RECENSIONI
Contemplazione, pedinamento ossessivo e "folle" delle vite sospese di un ospedale psichiatrico. Più prigionieri, ognuno con un'identità nominale e una storia. Il silenzio, i suoni disarticolati attestanti le "cause" della reclusione s'impongono inizialmente. E ridestano gli spiriti che amano adagiarsi su una rassicurante normalità. Poi la parola prende senso ed enuncia gli "effetti". Gli internati proferiscono frasi significative, troppo significative: "non eravamo pazzi prima di entrare qui dentro".
Da documento agghiacciante, il capolavoro di Wang Bing diviene così lo specchio di un'umanità che ha il solo torto di essere troppo umana, armatasi della sola consapevolezza che la vera follia è nello sguardo e nei gesti di chi giudica e reclude. Bing ha il coraggio di non fermarsi di fronte a niente, estendendo il campo del "visibile" per meglio ridefinire il confine tra ragione e follia. Il voyeurismo è altrove, solo negli spiriti incapaci d'intendere un coro di voci disperate e disperanti che attendevano soltanto di essere ascoltate e capite. Il miglior film di Venezia 70, ovviamente Fuori Concorso.
