TRAMA
Fay Grim vive ancora a New York e da sola cresce il figlio adolescente tentando di non farlo diventare come suo padre Henry, che sette anni prima si era dato alla fuga dopo aver ucciso il vicino di casa. La CIA informa Fay della morte del marito in Svezia, poco dopo la sua sparizione, ma il ritrovamento dei famosi quaderni di Henry e i viaggi che la donna intraprenderà per recuperarli fanno venire a galla molti clamorosi retroscena.
RECENSIONI
Fay Grim è un sequel? Tecnicamente sì: i personaggi sono quelli di La follia di Henry (1997) e gli avvenimenti prendono le mosse da quel film. Di fatto, però, conoscere le premesse non è necessario. Inoltre - fermo restando il riconoscibile marchio stilistico e lo sguardo impietoso sul reale, filtrato da paradosso e disilluso filosofismo propri dell'autore - il film di Hartley assume imprevedibilmente i toni di una spy-story stralunata, virando clamorosamente rispetto al suo predecessore, mutando carattere alla narrazione. Il dubbio che avvolgeva la figura di Henry nel finale del precedente si dissolve (egli è fuggito) ma una pesante eredità rimane da elaborare, un grande intrico deve essere dipanato, in cui tracce ed elementi da interpretare si traggono da foto porno in sequenza che si scrutano voyeuristicamente attraverso una macchinetta a manovella: non si dice di cosa si tratta, sappiamo solo che sono informazioni tremendamente importanti, decisive, imprescindibili (il macguffin è… il macguffin:, trattato come tale, cercato come tale, denudato, scagliato in faccia allo spettatore).
La decodifica di un testo (Le Confessioni di Fool, che dietro l’apparente banalità delle sue affermazioni, dietro la sciattezza dello stile - opera impubblicabile perché orrenda e che diventa improvvisamente da commercializzare - nasconderebbero la denuncia delle atrocità perpetrate da molti governi mondiali negli ultimi decenni) è al centro di un intreccio che Pynchon amerebbe: un manoscritto sottoposto a mille falsificazioni e rimaneggiamenti, un testo che viene puntualmente travisato (una collezione di falsi di un libro forse mai esistito? Cfr. Borges, Calvino, Greenaway); il mistero si incasina e Hal Hartley non ha nessun timore ad alzare il tiro, ad aumentare la posta in gioco, continuando ad accumulare fatti, stupidaggini, delitti (cfr. il magnifico Amateur), vendette incrociate, terrorismi di ogni risma, teorie di complotti che rimbalzano dalle hall di grandi alberghi internazionali al soggiorno di una modesta abitazione americana (tutti vogliono giocare a questo gigantesco risiko in cui ogni indizio sembra falso ma in cui pare riflettersi, deformato, un mondo reale). Le spiegazioni sono paradossalmente incomprensibili, l’agente della CIA (Jeff Goldblum, magnifico) sciorina fatti a velocità supersonica: non importa far capire cosa accade ma intasare il meccanismo, estenuarlo, metterlo in crisi.
Fay Grim è metatesto e metacinema, è divertimento godardiano, è un garbuglio inestricabile, un enigma a chiave che coinvolge chi non c’entra nulla («L’uomo onesto è sempre nei guai»), è un film che flirta col mystery interessandosi solo alle figure e alla struttura ma sconquassandone la sostanza, è un viaggio luperiano alla ricerca di un uomo che lascia le sue tracce in giro per il mondo (evocato, citato, amato, odiato, ricercato infine trovato, quasi ingabbiato, ancora in fuga), è una ricognizione nel meccanismo della narrazione (i salti temporali, i raccordi sottolineati, le didascalie gigantesche), è il frammento campionato (ancora Greenaway) di un universo narrativo che per induzione percepiamo tutto intorno ai fatti mostrati e al quale il regista potrà ancora attingere domani (il finale lo suggerisce [1]). O che verrà abbandonato per sempre.
Il film si propone come surreale caccia-al-tesoro-che-non-c’è che vede, come coatti protagonisti, individui strappati al livido quotidiano cui il regista costringe generalmente i suoi personaggi borderline, per essere catapultati in un intrigo situazionista e, ancora una volta, surreale (come dimenticare il nuovo avvento del Messia in The book of life?).
Hal Hartley, forse il più importante autore indipendente statunitense degli ultimi anni, sicuramente il più rigoroso e ardito, artefice di un cinema antispettacolare di stampo tutt’altro che americano, imbevuto com’è di una portentosa sensibilità letteraria (la centralità del verbo – anche poetico - in Henry Fool, la stessa storia che si replica in ambienti diversi nel quasi sperimentale Flirt, forse il suo film più sottostimato, la pesante marca etica che segna eventi e caratteri di ogni sua opera, in odore di Grande Romanzo – per tutte: Trust e Simple men -) gira in digitale un nuovo impedibile (e già perso per tutti – la distribuzione dei lavori di questo autore è un problema planetario, non solo italiano -) gioiello: usa i fermo-immagine con una espressività disarmante, taglia le scene con piani inclinati, pone in precario equilibrio i suoi personaggi scentrati, persi nel disordine globale.
Sulle corde tese di una colonna sonora minimalista, opera dello stesso regista, Hartley continua a deliziarci con le sua asincrona poetica, esasperando il prediletto modulo di impossibile vita normale dei suoi personaggi e convertendolo in autentica, gridata implausibilità di un micro/macro cosmo in cui le cose chiare si codificano, in cui eventi banali diventano rocamboleschi, in cui una donna qualunque si scopre eroina romanzesca (cfr. l’acutissimo sovvertimento e la conseguente sostituzione in Henry Fool: lo scrittore al centro della storia è Henry ma sarà Simon Grim a rivelarsi un genio e a vincere il Nobel; sarà invece – doppio salto mortale - Henry a partire per la Svezia al posto di Simon). Fay Grim, insomma, non rinuncia a quelle caratteristiche che fanno grande il cinema colto e intelligente di questo regista, non lesinando, teoricamente, incursioni nel genere (anche la screwball entra nel pacchetto).
Un film meraviglioso che in Italia non uscirà mai.
[1] Nota a posteriori: la recensione è del 2006, nel 2014 usciva Ned Rifle che conclude la trilogia.