TRAMA
Il dottor Faust incontra un mostruoso usuraio. È il diavolo, probabilmente. E vuole la sua anima.
RECENSIONI
Non c'è Dio, non c'è Mefistofele, nel prologo del Faust di Sokurov. Nonostante sia sceneggiato a partire dall'opera enciclopedica di Goethe, non c'è contesa intorno all'anima del protagonista. Solo una constatazione, in forma simbolica: uno specchio galleggia tra le nuvole virtuali, la mdp lo interpella fugacemente, scende verso la Terra, trascinata dal peso di una piuma. Si parla di umanità, qui. Guardatevi riflessi. Dal metafisico al fisico, sin dentro le viscere, ché il professor Faust può sì sezionare corpi, ma non trovare anime. Nel capitolo conclusivo della sua Tetralogia del Potere, Sokurov affronta il mito dell'individualismo moderno, vaglia i confini del potere,i limiti entro cui l'uomo può: conoscere, agire, essere. E, dopo le gesta dei piccoli uomini ridicoli Hitler, Lenin, Hiroito in Moloch, Taurus, Il sole, consacra sull'altare della mediocrità irredimibile il Mito. Premessa all'inevitabile fallimento del Potere, Faust - radicalizzando Goethe e allontandosi, ad esempio, da Marlowe - disperde l'ansia conoscitiva del protagonista in rivoli futili, accompagna la sua febbre smaniosa verso vicoli ciechi, immergendola nel non senso di un'epica che sa di parodia, che non conosce assoluti ma unicamente balbuzie, non certifica valori sociali, ma li contraddice. «In principio era l'azione» proclama il testo di Goethe, e il protagonista di Sokurov con questo, ma qui non c'è Streben romantico, anelito incessante all'agire: c'è solo movimento caotico, dietro cui si manifesta fluidamente il naturale disegno del Male, dentro cui l'uomo si perde, ottuso. Quel che Faust afferma a parole, quel che dice di sé e del Mondo, è costantemente negato: qui la hybris del suo sapere non è il motore della vicenda, la volontà d'azione si trasforma in deriva passiva. Faust subisce il Mondo: «Vorrei sprofondare con l'umanità», dice. E il mito dell'individualismo moderno si traduce nella sconfitta dell'uno. Faust è uno di molti. L'uomo, indegno della tragedia, diviene soggetto da commedia: così minuscolo da essere deresponsabilizzato, oggetto di risata, risibile in questo viaggio picaresco dove la logorrea sanziona sconfitto il logos, irretito dagli equivoci di un microcosmo che non comprende, che gli (/ci) si deforma di fronte agli occhi, che si apre sistematicamente al surreale, che lo (/ci) irride sardonicamente.
Secolarizzando l’idea di Potere, Sokurov partorisce un mondo osceno, palude dove ogni filosofia è sprofondata da tempo, virando l’immagine nel marcio dei colori, abitandola di corpi putridi, maleodoranti, squartati, donando consistenza tangibile all’olezzo di quest’eterno Medioevo: sfianca, il Faust, opera mondo in 4:3 che aggredisce i sensi, sforma il nostro vedere nelle sue inquadrature anamorfiche, lo svia nelle prospettive diagonali, ottunde e confonde l’intelletto in mai necessitate digressioni, nel caos di una narrazione mai lineare, che pare potere fare a meno del proprio protagonista ma non dell’assurdo. Un’esperienza sensoriale che travolge e annichilisce, fisica sino alla nausea perché interessata ai limiti dell’individuo, concreta teoria della mediocrità dello spirito. Modernista reazionario, Sokurov espelle dal vocabolario il termine Progresso persino dal passato, mentre paradossalmente sperimenta le possibilità del cinema, spingendolo verso una dimensione pittorica post- tarkovskjiana, capace di farsi sinestetica, fagocitando referenti che dall’apertura surrealista si inabissano negli inferni di Bosch, folgorando quando la pellicola si accende di pittura rinascimentale sul viso di Margherita (in un momento che dice, muto, della comprensione incredibile da parte di Sokurov del testo di Goethe, trasformando la donna in presenza vanamente salvifica, anticipando il proseguo del romanzo che il film non affronta). Coltissimo, capace di assimilare ogni Arte e, insieme, di essere immediatamente sensuale, fuori d’ogni misura, fuori dal tempo, come ogni Mito dovrebbe. Faust - opera che chiama a sé solo aggettivi assoluti - semplicemente riduce a briciola insignificante ogni altra pellicola d’oggi le si ponga a confronto. Insindacabile Leone d’Oro a Venezia 2011.
Un Sokurov che non ti aspetti chiude la tetralogia del potere raffigurando non più la solitudine della figura storica, ma dell’uomo tout-court, prendendo a prestito il Faust di Goethe (e il Doctor Faustus di Thomas Mann), rileggendolo liberamente e mettendolo in scena come un horror della Hammer filtrato da Brecht e Bosch (in realtà, ha dichiarato che ogni dettaglio è nato dallo studio dei quadri del XIX secolo, con citazioni pittoriche infinite, su tutti Bruegel il Vecchio), con toni un poco farseschi fino allo spirito greve (a specchio della meravigliosa macchietta del Diavolo), registri e soluzioni estetiche dissonanti e tante intuizioni geniali gettate alla rinfusa (il cinema che gli riesce meglio: completamente disancorato dalla realtà, dedito alla poesia). Riprende tutto con la claustrofobia di grandangoli, primi piani e lenti deformanti (ha citato, come fonte d’ispirazione primaria, Delbonnel e i suoi speciali strumenti ottici), dando indicazione agli interpreti di “starsi addosso” il più possibile. Questo anche per restituire l’aria dei tempi, fra fame e promiscuità: il risultato “filosofico”, con sottotesto anche ermetico, racconta l’affanno dell’anima in cerca di risposte. L’autore dissemina la pellicola anche di atti “magici” e mostruosi, dallo specchio digitale appeso nel cielo al corpo asessuato e deforme dello strozzino-diavolo, dall’homunculus dell’assistente stregone di Faust all’inferno finale, che ricorda Il Paese Incantato di Jodorowsky, con immense distese naturali solitarie, popolate però da demoni. Margarete, invece, rappresenta la vita, la bellezza negli occhi di chi guarda: Sokurov spara la luce sul suo volto paradisiaco e in Chiesa.