TRAMA
Un uomo viene ingaggiato per impersonare il padre scomparso di una ragazza di 12 anni, il fotografo per un’aspirante modella e il genitore di una sposa il giorno del suo matrimonio.
RECENSIONI
Molti registi hanno una nicchia pigra, la categoria passepartout per tutte le stagioni che garantisce alla critica il massimo risultato col minimo sforzo di ermeneutica e aggiornamento. Non è certo priva di appigli, tanto nei modi quanto nei soggetti, l'assegnazione d'ufficio delle opere di Werner Herzog all'area della "follia", che è una follia molto tedesca - il Nostro però, giustamente, si risente a non essere chiamato bavarese e del bavarese per eccellenza, Ludwig II, ha l'attrazione per megalomania e dissociazione - e partecipa del gusto per l'impresa, del titanismo, del genio, dell'inviduo contro il mondo, del sublime e del sulfureo e insomma è un folliaromantica©. Rischia tuttavia di appiattire i chiaroscuri di un pensiero e di una prassi artistica tra le più originali, eterogenee e radicali del cinema post vague. C'è del metodo, molto metodo, in quella follia, avrebbe detto qualcuno. E c'è una linea discorsiva che si sviluppa e trasforma lungo gli anni, che esplora temi come fossero aree geografiche e viceversa. L'immagine plastica, icastica come il versetto di un libro sacro e insieme pubblicitaria della nave trascinata su una montagna in mezzo alla jungla, la sceneggiatura scritta durante la trasferta sul pullman della squadra di calcio, la traversata a piedi dell'Europa gelata per "salvare" Lotte Eisner e il resoconto secco, spietato, esistenzialista che è "Sentieri nel ghiaccio" come le cronache di derive esistenziali che adombrano giudizi apocalittici sulle civiltà e sulla civiltà che sono Fitzcarraldo e Aguirre fanno lo stesso film, lo stesso libro. Esiste inoltre una storia del documentario pre e post Herzog, un genere che ha smesso di essere necessariamente il linguaggio dei fatti nudi per diventare la forma espressiva delle verità trascendenti annidate dietro o attorno ai fatti, liberato dal dovere di cronaca per poter fiorire come essay (da parte di Herzog in Germania, Marker e Rouch in Francia eccetera).
Fatte le premesse è difficile non considerare, almeno dalle apparenze, la settantatreesima regia herzoghiana, Family Romance, LLC, come un film folle. Innanzitutto nella genesi. Nasce da un girato scarso (300-350 minuti) raccolto da Herzog tra la primavera e l'estate 2019, tra Tokyo e la prefettura di Aomori in Giappone. Fin qui sarebbe tutto ancora a posto se il girato in questione non fosse un digitale spesso bruciato, mal esposto, poco definito oppure mal illuminato, a metà tra l'effetto soap opera e l'effetto Iphone di vecchia generazione, che un pavido regista normale avrebbe sicuramente scartato. E se non fosse stato realizzato senza chiedere permessi, al modo del guerrilla film making, da un regista che aveva sì teorizzato che il primo passo di un esordiente dovrebbe essere il furto di una macchina da presa ma che ora è quasi ottantenne ed è stato costretto, insieme alla troupe, a girare rapido e scappare all'avvicinarsi delle security. E se non si trattasse di una docufiction fondata su un documentario mancante che impiega i personaggi reali per interpretare delle versioni sceneggiate di loro stessi. E se, infine, il concept non fosse l'incontro lungamente atteso della "follia" herzoghiana con la "follia" precipua giapponese. La Family Romance, LLC è una compagnia che esiste davvero e fornisce dietro pagamento finti congiunti alla bisogna. È difficile tracciare un confine netto tra una inquietante mercatizzazione della solitudine e un servizio terapeutico di pubblica utilità funzionalizzato in modo molto nipponico (laico, pratico, spregiudicato). Osservando il protagonista, si propende per la seconda ipotesi. Per raccontare questa porzione lunatica di mondo che inevitabilmente gli si addice, Herzog imbastisce una trama incredibilmente naif - di un naif insolitamente autentico per un regista che ha fatto di una sofisticatissima finta naiveté la sua cifra - che sconfina nel cheesy, supera il bamboleggiante per avvicinare i verdi prati alchemici dove tutto è quintessenziale e trasparente che sono, per competenza geografica, di Yasujiro Ozu. Si riassume in tre righe. Un'adolescente non ha mai conosciuto il padre. La madre assolda Ishii Yuichi, mister Family Romance nella realtà come nella fiction, per colmare il vuoto. La prevedibile complicazione è dietro l'angolo. Tuttavia il valore del film sta soprattutto nei risvolti e nella periferia della linea narrativa principale, se lo stile libero asseconda le divagazioni del suo autore mentre sgrana occhi incantati infantili a ogni meraviglia nipponica, di fronte all'hanami (la festa per la fioritura dei ciliegi) come allo skyline di Tokyo, alla robotica kawaii fino alla demonologia shintoista e a maghe poco professionali. L'etnografia rapsodica applicata al Giappone ha antecedenti tanto illustri da sconsigliare il tentativo. Chris Marker e Roland Barthes, per fare i due nomi più ingombranti, paralizzerebbero chiunque. Herzog, però, per consuetudine procede lungo la sua strada con testardaggine germanica, senza accorgersi di chi gli sta davanti o a fianco. Si spiega l'impressione, peculiare al suo cinema, di uno sguardo vergine, di un primo sguardo su oggetti che dovrebbero essere consumati dall'abitudine, su immagini (i ciliegi in fiore, ad esempio) proliferate al limite dell'invisibilità. Investe inoltre nelle sottotrame di Family Romance, LLC - cfr. la storia strappacuore della donna che vuole rivincere la lotteria - un'empatia, un calore umano, una partecipazione spiazzanti, perfino secondo gli standard di un autore per indole immune al cinismo. Tra le tante, noncuranti, incongruità a un certo punto appare dal nulla una bambina triste, che fintopadre/verafiglia accolgono nelle passeggiate tra parchi e negozi di Tokyo. In un'epoca in cui tutto deve essere giustificato per poter essere incluso in un palinsesto, Herzog se ne frega di contesto e spiegazioni e ragiona per archetipi come Chaplin, come Ozu. La bambina è l'antonomasia del "sad toddler" e dobbiamo trovarle una famiglia, non ci serve altro. Specularmente la colonna sonora richiama Joe Hisaishi e non teme il patetico cristallino di scuola anime. La vicinanza ideologica consueta verso disadattati, beautiful loser e magnifici ossessionati si è spogliata dell'aura demoniaca per avvicinarsi a una simpatia piena di comprensione per la gente comune, i suoi microdrammi e affetti. Questo è un raro segnale di un Herzog che mostra, nel senso migliore, la sua età anagrafica.
Werner Herzog fu uno dei migliori amici di Bruce Chatwin il quale, morendo di AIDS, gli lasciò un'eredità simbolica impegnativa quanto un'investitura: il suo zaino. I due erano uniti dall'aver elevato il nomadismo a postura esistenziale, aver viaggiato nei modi e luoghi più avventurosi e pericolosi. Con la stessa postura nomade e in modo altrettanto spregiudicato il regista bavarese si avventura tra i temi filosofici che lo affascinano. L'interesse, specialmente in tempi recenti, appare spaziare all'interno di una galassia rizomatica di argomenti che fanno riferimento a due stelle fisse, come evidenziato plasticamente dal dittico 2016 Into the Inferno / Lo and Behold: il rapporto equivocamente cannibale tra uomo e natura e la struttura della realtà stravolta dalle rivoluzioni quantistica e informatica. Siccome stavolta non vediamo grizzly, deserti, continenti artici o jungle, l'asse è tutto spostato verso la seconda galassia tematica. C'è un discorso antropologico secondo cui la nozione di autenticità andrebbe almeno aggiornata allo stato dell'arte della tecnologia e un discorso esistenziale, ancora più sentito. Come molti romantici tedeschi prima di lui, Herzog non fa dell'empirismo una gabbia. Il primo punto della Dichiarazione del Minnesota rubrica sprezzante il realismo a "verità dei contabili" e le oppone una "verità estatica" da rinvenire attraverso l'invenzione, l'immaginazione, la stilizzazione. Una menzogna feconda è molto più vera di una realtà sterile, perciò Herzog osserva le vicende del finto padre / marito / ferroviere abbandonando posizioni morali standard. Senza negare i pericoli impliciti nell'operazione ma muovendo da un'etica plastica e compassionevole, da umanista autentico, per cui conta il bene fatto piuttosto che gli imperativi categorici può risultare effettivamente filantropico fingersi qualcuno di cui qualcun altro ha bisogno. "Family Romance, LLC" trova una perfetta assonanza tra forma e senso, tra le riprese "brutte" alternate a immagini semituristiche che dicono di una adesione senza sovrastrutture e veicolano verità trascendenti attingibili solo previa sintonizzazione emotiva (è prevedibile che per molti il film risulti completamente refrattario) e il "messaggio" che è: "basta che funzioni". Tutte le relazioni interpersonali hanno una quota di role-playing, di performance e l'ossessione per l'autenticità e la spontaneità è un feticcio culturale passabile di trasmutazione dei valori, se ostacola la felicità, se impedisce un incontro.
Non è casuale, se l'ultimo Herzog realizza come abbiamo visto dittici complementari più che film isolati, che Family Romance, LLC venga nello stesso anno del documentario "Nomad: sulle orme di Bruce Chatwin". Celebrato l'amico e fratello, il nomade che sentenziò "Il turismo è peccato, viaggiare a piedi è Virtù" si concede infine una parentesi turistica, non ha paura di aggirarsi attorno al convenzionale per poi detournarlo. Herzog ad ogni modo porta i suoi personaggi dove vuole lui o più precisamente dove lo porta una curiosità istintiva, non un anelito alla coerenza. Così, in modo apparentemente incongruo, il film finisce in un hotel dal personale robotico. Lì, all'interno di un film per sua natura piccolo e minore, Herzog trova una scena che ha dentro più cinema - e più verità estatica - della stragrande maggioranza dei prodotti Netflix o netflix-style di tempi recenti sommati tra loro. In un momento che è autocitazione e autoparodia chiede cosa sognino i robot-concierge poi la camera si sposta su un pesce automa dentro un acquario e lo segue. Il suo aspetto superflat, post-organico contrasta con i movimenti caudali perfettamente credibili, in una spirale ascendente di unheimlich ipnotico la quale ci ricorda che il cinema (l'arte) è ancora fatto per aprire territori ibridi, perturbanti, equivoci nei quali andare alla deriva, piuttosto che fornire conferme alle proprie aspettative, alla propria identità. È una scena di una manciata di secondi ma dice che a fare la differenza, nel cinema come in tutto il resto, è sempre lo sguardo e il vecchio maestro Werner Herzog ci insegna ancora come si guarda.
Alessandro Ronchi
(25 Settembre 2020)
Update
Colpo di scena! Herzog e il mondo vennero a sapere della Family Romance, LCC grazie a un'intervista pubblicata su "The Atlantic" nel 2017 diventata un articolato reportage premiatissimo su "The New Yorker" nell'aprile 2018, a firma Elif Batuman. Se non che nel dicembre 2020 lo stesso "New Yorker" ha scoperto a colpi di fact-checking che non c'era nulla di vero. L'agenzia, mr. Family Romance, i clienti, le storie: tutto un grande fake. Il sistema di scatole cinesi tra realtà e finzione si arricchisce di un ulteriore strato fino a raggiungere una complessità difficile da maneggiare a meno di possedere un PhD in ontologia. Noi spettatori semplici ci troviamo di fronte a un bivio: sentirci defraudati della parte documentaria, dell'effetto-reale, della storia vera, sentirci presi in giro e quindi scatenare l'outrage, richiedere ai truffatori un harakiri e pretendere indietro il costo del biglietto; smettere con ancora più forza di chiedersi cosa è confermato secondo la "verità dei contabili" e riguardare il film a maggior ragione concentrati sulle verità estatiche che è in grado di sollevare. Suggeriamo sommessamente la seconda opzione. Se funziona ugualmente avrà per assurdo dimostrato l'assunto del film - cosa importa se è vero, se tocca il cuore, se migliora la vita? - in modo ancora più efficace.