TRAMA
Vince Collins e Larry Morris sono i due divi più popolari della televisione americana anni ’50. Quando una giovane cameriera viene ritrovata morta nella vasca da bagno della loro stanza d’albergo il loro astro perde lucentezza. Negli anni ’70 una giovane giornalista vuole far luce sulla vicenda.
RECENSIONI
Come spesso accade nelle vite degli individui, il segreto celato nel seno opaco del tempo è meno terribile di come si sospetta ma, essendo capace di rovinare la fama di quel feticcio disperato e compulsivo che è l'uomo di spettacolo, viene contraffatto e archiviato, determinando con ciò l'umana rovina dei suoi custodi; tema che peraltro non sembra interessare troppo Egoyan, qui più dialettico e meno lirico di quanto gli riuscì ne Il Dolce Domani.
L'ambiziosa giornalista che decide di riportare alla luce l'arcano dimenticato offre a se stessa l'alibi di un conto aperto col proprio passato: l'inganno - multiplo, cangiante, elusivo, incoerente - domina le vite dei protagonisti (bravi Firth e Bacon ad arpeggiare sgradevolmente, ma la loro cinica antagonista non è più espressiva di una patata lessa). Se il gioco delle parti in cui tutti sono presi non lascerà nessuno indenne e causerà nuove tragedie, solleciterà pure una doppia rivelazione imprevedibile (ma prevista anche dal più disattento degli spettatori), mostrando la feconda ambivalenza della menzogna.
L'autore ricorre al prediletto tema dell'indagine che finisce con lo scandagliare abissi insospettati; una struttura che egli complica in modo sofisticato con la personale cifra espressiva della decostruzione temporale (qui i piani cronologici sono "soltanto" due, ma ciascuno di essi presenta ulteriori frammentazioni e disordini) e della mise en abîme del racconto e della visione, fin dalla prima sequenza: uno stratificato intrico di narrazioni e punti di vista, una sommatoria di finzioni (tutti i protagonisti mentono, di continuo, in modo sempre diverso e per scopi mutevoli) e di scambi di identità, un prisma attraverso cui la realtà viene decomposta e riformulata. Il passato, come in Ararat, rivive attraverso un copione che lo ricrea: la mistificazione di un occulto demiurgo che non basterà a salvare una vita. Ma dopo aver scoperto il fondo su cui giace la verità (Where the Truth Lies, recita il titolo originale), la protagonista mentirà ancora, in un finale di austera poesia, per pacificare un'altra esistenza piegata dalla sofferenza e dal lutto.
La ricostruzione di un'epoca e di un ambiente è condotta attraverso memorie cinematografiche di genere, cioè con la mediazione di un filtro fortemente strutturato in direzione dello stereotipo: una civetteria da degustare in scioltezza (come suggerisce sarcasticamente il protagonista), proprio per il suo essere smaliziato omaggio alle macchine di menzogna incarnate nel grande e nel piccolo schermo. Invece, ciò che manca al film - ed è mancanza grave, coinvolgendo la sua architettura formale - è una reale necessità di struttura, la vicenda essendo tutt'altro che integrata al virtuosismo centrifugo, macchinoso e infine adulterante dellintreccio; né viene innalzata dalla mano del regista, elegante ma troppo tesa a una celebrazione del proprio modo di fare cinema per conferire nerbo a una materia lisa, per di più sospesa sull'orlo d'un facile moralismo nella visualizzazione della vita dissoluta dei ricchi e famosi.
Egoyan è un autore che amiamo, ma mai come in questa occasione la sua maniera (da taluno rimproveratagli sempre e comunque, come se autorialità e maniera non fossero inestricabilmente connesse) ci ha lasciato il sapore di una silloge lambiccata e sterile, mentre nei suoi risultati più felici (Exotica, Il Dolce Domani, Il Viaggio di Felicia) il regista aveva saputo condensare detection esistenziale, parcellizzazione temporale e dialettica dei punti di vista in uno stile certamente iper-controllato, ma trasfigurato in un canto di dolente intensità.
Mentre con A history of violence l’applicazione del discorso autoriale di Cronenberg risulta decisamente più interessante del discorso stesso (oramai acquisito, metabolizzato, abbondantemente dato), False verità ci conferma che la poetica di Egoyan (ne dissi a proposito di Ararat) mal si presta ad essere applicata ad ambiti diversi da quelli originali prospettati dallo stesso regista, per quanto questi si ostini a volerla piegare ed adattare a contesti (letterari perlopiù) e a generi diversi. L’autore, pur in contesto produttivo hollywoodiano, non rinuncia dunque alla consueta frantumazione temporale, moltiplica le prospettive (di qui il ricorso – un tempo impensabile - a svariate voci over in omaggio - come i personaggi, certi toni ed atmosfere, la fotografia del fedele Sarossy - al cinema noir), relativizza la narrazione (affidata, come sempre, a un documento tangibile che può confondere le acque: un libro), fa addirittura ricorso a falsi flashback (e ad andirivieni temporali - in un presente deforme, figlio di un passato manipolato - con agnizioni incorporate) e alle consuete ellissi per sottolineare il discorso centrale del film (la credibilità può funzionare meglio della verità: così tutti i protagonisti mentono, nessuno escluso) ma l’applicazione del complesso concettuale risulta evidente e macchinosa, False verità non rinunciando a pesanti verbosità, all’intrigo giallo (che al regista, pur ossequiandolo convenzionalmente, poco interessa) e ad un armamentario teorico (e retorico) che mal si integra al contesto filmico, rimanendo, rispetto ad esso, evidentemente sovrastrutturale.
Il piglio autorale di Atom Egoyan, qui più che mai, mostra la corda nel manierismo (di se stesso): affidandosi ad un soggetto non proprio (il romanzo dell’eclettico musicista Rupert Holmes), sparge in ogni dove i segni del “suo” cinema, richiamando maggiormente alla mente Exotica, fra puzzle narrativo di flashback ed erotismo spinto nel mondo dello spettacolo. Ma attraversano tutte le sue opere il sesso mercificato, i salti temporali della drammaturgia, la realtà mediata (altrove da surrogati video, qui dal giornalismo, dall’autobiografia, dall’Io narrante, da qualche brano televisivo) e il luogo–albergo. Era protagonista una cameriera anche in Mondo Virtuale, una verità celata era salvifica anche in Il Dolce Domani e uno show televisivo degli anni cinquanta faceva gran mostra di sé in Il Viaggio di Felicia. Poco male, a patto che il resto funzioni: invece la sovrapposizione di Io narranti (quello della giovane giornalista, quello delle memorie di Lanny), di fonti che leggono la realtà (interviste e manoscritti) e di piani temporali, crea un distacco artificioso (non freddo e lucido come in altre opere, più ispirate, di Egoyan) e non aiutano, in questo caso, le onnipresenti, fino a diventare monocordi, musiche jazzate di Mychael Danna (che fanno il paio con la fotografia dai colori vivaci di Paul Sarossy). Non intriga e non sorprende più di tanto nemmeno il mosaico da ricomporre fra verità e false testimonianze (con soluzione al giallo farraginosa): da un lato è prevedibile, dall’altro non c’è relazione fra ciò che si mostra, i modi per rappresentarlo ed un sottotesto allegorico che fatica a far sentire la propria voce. Anche, soprattutto all’inizio, i vari registri fra noir, thriller, commedia, psicologismo e cinema memoriale rischiano di annullarsi a vicenda. Si resta succubi di fiumi di parole, di immagini erotiche spinte a tratti gratuite (non c’è più nessun discorso sulla solitudine dell’uomo-voyeur) ma è innegabile che l’elaborato gioco dell’autore finisca per incuriosire e che le prove (penalizzate dal brutto doppiaggio nostrano) dei due protagonisti valgano il costo del biglietto.